Non
amava spiegare il suo cinema
Carlo Mazzacurati. Era convinto
che le immagini, le storie parlassero da sole. Ed è nel
rapporto tra immagine e storie, che sta forse il suo tocco
particolare di regista. La prima sensazione, di fronte al suo
cinema, è che ci siano delle immagini di troppo. Che troppe
volte la storia si fermi per lasciare lo spazio all’immagine,
magari guidata dalla musica. Sembra esserci un che di gratuito
in questo sostare, ma a vederli di fila i suoi film rivelano
che è questo è il suo cinema, forse la ragione stessa del suo
fare cinema. Le storie contano, certo. E non solo come storie.
Il cinema di Carlo Mazzacurati non è mai stato asettico, ha
sempre cercato di raccontare la contemporaneità, qualche volta
addirittura di immergersi nella cronaca. Non è un cinema che
non giudica, che non prende posizione. Ma è vero che lascia
sempre un po’ smarriti, un po’ incerti, perché non è un cinema
manicheo, non schiera mai i buoni contro i cattivi. Un modo di
vedere la vita, probabilmente, ma anche un modo di vedere il
cinema.
Prendiamo
Notte italiana,
il suo primo film, in qualche modo anche un manifesto del suo
cinema. Ci sono i cattivi, ma lo sono quasi per caso, per
fragilità, per ignoranza, per insipienza, per banalità. Ci
sono i buoni, ma sono quasi altrettanto fragili, non riescono
ad alzare la voce, tengono fede alla giustizia ma senza
bandiere, senza sperare premi, semplicemente come un dovere
che bisogna più o meno portare avanti. E tutto questo è detto
con le immagini, più che altro. Si ha come la sensazione che
mentre le vite si aggrovigliano, i luoghi rimangano uguali, a
raccontare una realtà più profonda più autentica, più vera. Si
avverte quasi la voglia di non andare avanti a raccontare, per
limitarsi a seguire i volti, gli oggetti, i panorami, perché
sono queste cose che raccontano quel che realmente accade
dentro le persone.
I primi critici dicevano meglio
la parte descrittiva che narrativa. Avevano ragione, ma non
coglievano, e non potevano farlo, che questa era la chiave di
volta di un narratore atipico come è stato Carlo Mazzacurati.
Lo si è capito dopo, col tempo, sommando film a film. Anche
uno di quelli che tutti considerano poco riuscito come Il
prete bello. Perché è vero che di alcuni dei temi forti di
Parise rimane poco, ma non è un tradimento, tutt’altro. Di
Parise rimane l’elemento che probabilmente aveva colpito di
Mazzacurati come lettore, quella sensazione di avventura, di
amicizia, che il tempo avrebbe poi spazzato via. Lo si
potrebbe dire un cinema malinconico quello di Carlo
Mazzacurati, un cinema in cui sempre si rimane soli.
L’arroganza non vince, ma l’innocenza neppure. L’indignazione
è sotterranea. Ma sempre rimangono delle immagini, che
costituiscono il senso stesso del film. Forse nessuno ha
raccontato il Veneto come Mazzacurati. Ma non lo ha fatto
sociologicamente, lo ha fatto con le sue immagini della
laguna, del Delta, così corrispondenti al suo modo di sentire
le cose. C’è sempre la disgregazione intorno, il silenzio, un
paesaggio tragico eppure dolce, che non disdegna il sorriso.
Un po’ come i film “comici” come
La lingua del Santo o
La
passione che comici in realtà non sono, anzi sono forse i
suoi film più amari, attaccati ad un sorriso sghembo,
dubbioso, subito frenato. Personaggi che in realtà stridono
con la vita, e se fanno ridere lo fanno quasi per sbaglio. Non
a caso Mazzacurati ha usato attori come Albanese, come Silvio
Orlando, come Corrado Guzzanti.
Troppo presto si può fare un
bilancio del cinema di Mazzacurati. Lo si farà nei prossimi
mesi, nei prossimi anni. Ma una cosa è certa. Carlo
Mazzacurati è stato un autore, il suo cinema è estremamente
riconoscibile e anche negli apparenti compromessi ha
conservato un tratto unico, personalissimo, che aveva a che
fare anche coi suoi silenzi nelle interviste, col suo riserbo,
con la sua poca voglia di avere un ruolo pubblico, col suo
amore per il cinema in tutte le sue forme.
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