gennaio 2014

periodico di cinema, cultura e altro... ©

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Reg.1757 (PD 20/08/01)

 


    Non amava spiegare il suo cinema Carlo Mazzacurati. Era convinto che le immagini, le storie parlassero da sole. Ed è nel rapporto tra immagine e storie, che sta forse il suo tocco particolare di regista. La prima sensazione, di fronte al suo cinema, è che ci siano delle immagini di troppo. Che troppe volte la storia si fermi per lasciare lo spazio all’immagine, magari guidata dalla musica. Sembra esserci un che di gratuito in questo sostare, ma a vederli di fila i suoi film rivelano che è questo è il suo cinema, forse la ragione stessa del suo fare cinema. Le storie contano, certo. E non solo come storie. Il cinema di Carlo Mazzacurati non è mai stato asettico, ha sempre cercato di raccontare la contemporaneità, qualche volta addirittura di immergersi nella cronaca. Non è un cinema che non giudica, che non prende posizione. Ma è vero che lascia sempre un po’ smarriti, un po’ incerti, perché non è un cinema manicheo, non schiera mai i buoni contro i cattivi. Un modo di vedere la vita, probabilmente, ma anche un modo di vedere il cinema.
Prendiamo
Notte italiana, il suo primo film, in qualche modo anche un manifesto del suo cinema. Ci sono i cattivi, ma lo sono quasi per caso, per fragilità, per ignoranza, per insipienza, per banalità. Ci sono i buoni, ma sono quasi altrettanto fragili, non riescono ad alzare la voce, tengono fede alla giustizia ma senza bandiere, senza sperare premi, semplicemente come un dovere che bisogna più o meno portare avanti. E tutto questo è detto con le immagini, più che altro. Si ha come la sensazione che mentre le vite si aggrovigliano, i luoghi rimangano uguali, a raccontare una realtà più profonda più autentica, più vera. Si avverte quasi la voglia di non andare avanti a raccontare, per limitarsi a seguire i volti, gli oggetti, i panorami, perché sono queste cose che raccontano quel che realmente accade dentro le persone.
I primi critici dicevano meglio la parte descrittiva che narrativa. Avevano ragione, ma non coglievano, e non potevano farlo, che questa era la chiave di volta di un narratore atipico come è stato Carlo Mazzacurati. Lo si è capito dopo, col tempo, sommando film a film. Anche uno di quelli che tutti considerano poco riuscito come Il prete bello. Perché è vero che di alcuni dei temi forti di Parise rimane poco, ma non è un tradimento, tutt’altro. Di Parise rimane l’elemento che probabilmente aveva colpito di Mazzacurati come lettore, quella sensazione di avventura, di amicizia, che il tempo avrebbe poi spazzato via. Lo si potrebbe dire un cinema malinconico  quello di Carlo Mazzacurati, un cinema in cui sempre si rimane soli. L’arroganza non vince, ma l’innocenza neppure. L’indignazione è sotterranea. Ma sempre rimangono delle immagini, che costituiscono il senso stesso del film. Forse nessuno ha raccontato il Veneto come Mazzacurati. Ma non lo ha fatto sociologicamente, lo ha fatto con le sue immagini della laguna, del Delta, così corrispondenti al suo modo di sentire le cose. C’è sempre la disgregazione intorno, il silenzio, un paesaggio tragico eppure dolce, che non disdegna il sorriso. Un po’ come i film “comici” come La lingua del Santo o La passione che comici in realtà non sono, anzi sono forse i suoi film più amari, attaccati ad un sorriso sghembo, dubbioso, subito frenato. Personaggi che in realtà stridono con la vita, e se fanno ridere lo fanno quasi per sbaglio. Non a caso Mazzacurati ha usato attori come Albanese, come  Silvio Orlando, come Corrado Guzzanti.
Troppo presto si può fare un bilancio del cinema di Mazzacurati. Lo si farà nei prossimi mesi, nei prossimi anni. Ma una cosa è certa. Carlo Mazzacurati è stato un autore, il suo cinema è estremamente riconoscibile e anche negli apparenti compromessi ha conservato  un tratto unico, personalissimo, che aveva a che fare anche coi suoi silenzi nelle interviste, col suo riserbo, con la sua poca voglia di avere un ruolo pubblico, col suo amore per il cinema in tutte le sue forme.                   
 

Nicolò Menniti Ippolito

filmografia

  Doveva essere un editoriale gioioso per la soddisfazione di aver raggiunto l'ambito traguardo della campagna "salva-LUX"; c'era da raccontare l'acquisto della nuova apparecchiatura digitale, la straordinaria solidarietà cittadina che l'avevo reso possibile, il festoso, partecipato momento dell'inaugurazione...

E invece, giusto pochi giorni prima di chiudere questa pagina, ecco la notizia della scomparsa di Carlo. Si sapeva del male inesorabile che incombeva su di lui, ma in queste situazioni c'è sempre la voglia di aver fiducia, di confidare nel miglior futuro possibile. L'energia che aveva dimostrato nel portare avanti le riprese dell'ultimo suo lavoro La sedia della felicità (con una location proprio negli spazi ove si erano organizzati i mercatini della raccolta fondi per il Lux!) aveva esorcizzato in quanti gli erano affezionati, ma non così intimante vicini, lo spettro della malattia.
Ora non possiamo che ricordarlo, con stima e affetto, riapprezzare il suo lavoro  (al Lux lo abbiamo subito commemorato con la proiezione di una copia in pellicola del suo memorabile esordio, Notte italiana) e dedicare questo numero al suo timido, contagioso sorriso.

 

 

    

  Documentarite acuta! Dopo Venezia anche l'8° Festival di Roma segue la deriva anti-fiction e premia Tir di Alberto Fasulo, un ibrido di finzione e realtà, un pedinamento on the road di Branko, camionista croato, che lavora per una ditta di trasporti italiana. Al di là del filo narrativo che intreccia il viaggio per le strade d'Europa con le telefonate del protagonista con la moglie e il figlio, l'approccio documentarista resta evidente e, anche se il gradimento del pubblico è risultato alto, resta la perplessità per il cul de sac in cui si sta infilando il cinema d'autore italiano dopo l'esperienza contraddittoria di Sacro Gra.
Detto questo il nostro consenso partecipe va invece ai due premi per l'interpretazione maschile e femminile. Straordinaria e intensa quella di Matthew McConaughey (
Dallas Buyers Club) , rarefatta e provocatoria (nella scelta da parte della giuria) quella di Scarlett Joahnson che presta solo la sua voce a Her di Spike Jonze. Due film che sono stati i veri fiori all'occhiello del Festival assieme a Mogura no uta di Takashi Miike; ma per la follia-pulp del regista giapponese nessun riconoscimento e, per ora, nessuna distribuzione italiana...

     

Giovanni Martini

 

     L’immagine più significativa della 31esima edizione del Torino film Festival (inaugurata il 22 novembre 2013, congedata il 30) è quella del neo-direttore Paolo Virzì film precedente in archivio accompagnato in sala da una banda di musicisti alla presentazione di quasi ogni film delle tante rassegne di cui si compone il Festival. Un ingresso “rumoroso”, ma intimo, altisonante, ma confidenziale com’è il TFF. Qui, rispetto a manifestazioni più storiche o istituzionali (in primis Venezia), si respira un’aria di casa, più rilassata anche se per nulla oziosa, con Virzì e i suoi sodali tanto indaffarati sul piano professionale quanto appassionati come fossero semplici fruitori di immagini e voraci di cinema a tutti i livelli. Nove giorni di utopia, di un cinema senza confini, caldo e accogliente, dove - come ha dichiarato più volte Virzì (che, per l’anno prossimo, ha lasciato le redini della manifestazione alla fedele Emanuela Martini) - “lo spettacolo e l’intrattenimento popolare abitano nello stesso luogo dei percorsi d’autore, del documentario e del cinema sperimentale; ma anche un Festival 2.0, continuamente ‘connesso’ e fruibile dagli utenti del web”. E, infatti, dentro al 31esimo TFF c’è stato proprio di tutto. Dalla commedia senescente ma vitale che lo ha inaugurato (Last Vegas di Jon Turteltaub, interpretato da quattro colossi come Robert De Niro, Michael Douglas, Kevin Kline e Morgan Freeman), alle produzioni di nicchia, in una tensione continua tra mainstrem e ricerca, intrattenimento e cinema indipendente. Come nel caso del sorprendete Francis Ha dell’ancora più sorprendente Greta Gerwig, presente al Festival (e particolarmente divertita dagli ingressi “caciaroni” di Virzì e staff) con un film in bianco e nero, girato a Manhattan, indie che più indie non si può.

 

E poi ancora, accanto alle sezioni competitive (dove ha brillato anche l’Italia civile e ironica di Pif e del suo La mafia uccide solo d’estate), vetrine dedicate a film europei di gusto popolare, che rischiano di rimanere inediti e invisibili in Italia, o la meravigliosa retrospettiva dedicata alla New Hollywood, con circa ottanta film americani (c’era di che perdersi…) realizzati tra il 1967 e il 1976 da autori come Peter Bogdanovich, Bob Rafelson, Jerry Schatzberg, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Sydney Pollack, Robert Altman, Jonathan Demme o Michael Cimino, responsabili di un cambiamento stilistico e immaginario radicale attraverso il quale l’industria cinematografica americana è risorta dalle proprie ceneri. Ma anche finestre sull’ultimo Festival di Cannes che hanno permesso di vedere in anteprima l’ultimo capolavoro dei ratelli Coen (A proposito di Davis) o la lotta uomo-natura ingaggiata da Robert Redford contro l’oceano indiano in All is lost. E, infine, un omaggio, quasi profetico, a Carlo Mazzacurati, a cui è stato consegnato il Gran Premio Torino 2013: il suo ultimo film - La sedia della felicità – è passato proprio a Torino, in un clima di rimpatriata e di saluto, sospeso tra la favola e una realtà che, purtroppo, non sempre si può congelare. Un commiato dalla vita, ma non dal suo cinema, che, anche grazie a TFF, riscopriamo con curiosità e ammirazione.

Marco Contino

 

Altre visioni

Agli inizi fu Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues). Era il 1981 e quei telefilm non si chiudevano con la risoluzione del caso ma si “inseguivano” l’un l’altro approfittando della serialità non tanto per proporre nuove indagini, quanto per meglio delineare ambienti e personaggi. D’altra parte bisogna andare al 1963 per datare l’apertura di un meccanismo seriale che prolungasse il tempo dell’indagine oltre l’ora classica del palinsesto televisivo. Si trattava de Il fuggiasco (The Fugitive) che negli USA andò in onda per 4 stagioni (30 episodi ciascuna, di cui gli ultimi a colori) e che anche in Italia ebbe un notevole seguito. Qui allo sviluppo iterato del processo narrativo (in realtà un loop estenuante che riportava ogni volta la vicenda ad un nuovo punto morto) l’evoluzione dei protagonisti era pressoché nulla, con il dott. Kimble la cui innocenza era ben acquisita dallo spettatore e con il tenente Gerard, segugio implacabile accecato dal proprio ruolo investigativo.

Il richiamo a questi due esempi di serialità “capostipite” è d’obbligo poiché nel proliferare in questi anni di appuntamenti televisivi polizieschi il gioco drammaturgico-partecipativo ha puntato essenzialmente sulla definizione sempre più consolidata di personaggi e ambienti tendendo però a chiudere i singoli casi nello spazio-tempo di uno “slot” canonico: il tempo dell’azione si può prolungare se l’avventura seriale investe situazioni che facciano capo ad un registro spionistico complesso (24, Homeland), ma, se giallo e noir hanno potuto trovare un più strutturato arco temporale nella produzione cinematografica del grande schermo, il serial poliziesco ha avuto da una parte il respiro corto nella complessità virtuale del caso, dall’altra il ritmo frenetico nel susseguirsi dei tempi dell’indagine. L’irrompere sulla scena di The Killing (AMC 2011) ha dato, in questo senso, una memorabile scossa >>

 
 

in rete dal 3 febbraio 2014

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