Tom à la ferme
permette al pubblico italiano di scoprire Xavier Dolan, definito
unanimemente enfant prodige del cinema canadese, dopo tre opere
acclamate a Cannes ma mai uscite nel nostro paese. Con questo film il
regista e attore ventiquattrenne si cimenta per la prima volta con una
sceneggiatura non originale, adattando l'omonima pièce di Michel Marc
Bouchard, e riservando a sé la parte del protagonista.
La storia è ambientata nel Quebec agricolo, dove Tom , giovane
pubblicitario, giunge da Montreal per i funerali del suo compagno,
Guillaume: scopre però che la madre Agathe nulla sa dell'omosessualità
del figlio e che tenace custode di questo segreto è il fratello
maggiore, Francis. Tom, obbligato da Francis a tenere in piedi la
finzione, viene pian piano risucchiato dall'atmosfera malata della
fattoria e dal ruolo ambiguo che gli è stato assegnato, che lo vede di
volta in volta oggetto del desiderio e vittima della violenza omofoba
di Francis, compagno devoto che espia la colpa di essere ancora vivo o
semplice amico che rinnova il ricordo del “ figlio perfetto”. L'arrivo
alla fattoria di un elemento estraneo lo riscuoterà all'improvviso,
svelandogli la verità sul suo “grande amore” e sulla trappola in cui
si è infilato.
Secondo il regista tutta l'emozione del film è concentrata in questa
frase della pièce teatrale: “Prima di apprendere ad amare, gli
omosessuali apprendono a mentire”. Il fatto di dover mentire,
nascondersi, è la prima violenza che essi subiscono e viene proprio
dalle persone più care; questo apre la strada all'accettazione di
altri soprusi. Non a caso l'origine di tutta la violenza è delineata
con chiarezza nel film nella figura della madre, - una grande prova di
Lise Roy - , che nelle sue esplosioni isteriche di ilarità o
commozione rivela la forza pericolosa di un amore cieco e sordo per il
figlio scomparso, amore che impone a tutti dei ruoli, a cominciare dal
figlio che le è rimasto accanto.
Oltre che sul disagio familiare e sul tema dell'identità sessuale, il
film indaga più in generale sulle verità che ci nascondiamo e sulle
immagini di noi e degli altri a cui tenacemente ci attacchiamo, fino a
rischiare di autodistruggerci: "Ciò che non conosci può farti del
male", recita la tagline del film. Alcuni personaggi riescono a
guardare in faccia la realtà e ad andare avanti, per altri ciò non è
possibile.
Nello sviluppare questo percorso di conoscenza Dolan oscilla tra due
registri: il genere drammatico-psicologico, illuminato da tocchi di
ironia, e quello thriller-horror, affidato soprattutto al peso della
colonna sonora. Dal punto di vista del linguaggio filmico l'elemento
che più colpisce lo spettatore è proprio la diversa natura
dell'elemento visivo rispetto alla unidirezionalità della parte
musicale, decisamente classica, per la precisione sfacciatamente
hermanniana, affidata a Gabriel Yared.
È evidente che Dolan non ha paura di eccedere e che quando decide di
ispirarsi a
Hitchcock
lo fa senza pudori. Il risultato è sicuramente un film imperfetto,
discontinuo, con componenti non ben armonizzate, ma che non lascia
indifferenti. Rimangono impressi in particolare alcuni momenti
intensi, tutti giocati sull'ambiguità dei sentimenti; e il
protagonista, anche grazie all'interpretazione di Dolan stesso,
risulta una figura sensuale, ingenua, spudorata, romantica,
spaventata, irritante, confusa, insomma difficile da dimenticare.
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