Child of God
è uno dei romanzi1
più belli e intensi di Cormac McCarthy (Non
è un paese per vecchi,
The Road), incentrato
su un personaggio emblematico della poetica di questo autore: un
escluso, balordo, vagabondo, repellente e tenero nello stesso tempo,
che, dopo aver perso il padre e la casa, scende sempre più in basso
nell'abisso della solitudine e dell'emarginazione, fino a macchiarsi
di delitti orrendi, mosso dal desiderio insoddisfatto di avere dei
rapporti con altri esseri umani.
James Franco è sicuramente una delle personalità più interessanti e
poliedriche del panorama artistico di questi anni: artista, regista,
produttore, attore, scrittore: solo a Venezia era presente come
regista con un suo film, come attore nel documentario su Fuller (A
Fuller life) e come autore del romanzo Palo Alto, a cui è ispirato il
film omonimo di Gia Coppola.
Child of God
rappresenta il secondo capitolo di una trilogia ispirata agli
scrittori che lui ama: il primo As I Lay Dying
(Mentre morivo)
da Faulkner è stato presentato a Cannes, il prossimo sarà un biopic su
Bukowski.
“La cosa che mi attirava di più del libro era il personaggio di Lester
Ballard, un personaggio estremo in una situazione estrema...- dichiara
alla conferenza stampa - In questo progetto vedevamo la possibilità di
analizzare l'isolamento estremo...la sua funzione era quella di
mostrare, in modo certamente intenso, che cosa significhi volersi
disperatamente collegare ad altri esseri umani e non essere capaci di
farlo...”
Child of God è effettivamente un film estremo e radicale, non tanto
nella scelta di mostrare scene e situazioni molto crude, ma
nell'approccio che Franco ha rispetto alla materia. Dividendola in tre
capitoli, il regista decide di montare diverse scene di vita
quotidiana in cui il protagonista è sempre in campo: vince i peluche
al Luna Park, si masturba spiando una coppia che fa' sesso, si porta a
casa una ragazza morta, che tratta e usa come la sua donna e così via
in un crescendo di orrore: tre tappe di un viaggio verso l'abisso.
Franco non concede nulla allo spettatore e rischiando molto, anche la
noia in alcuni tratti, sta sempre incollato al personaggio,
interpretato magistralmente da Scott Haze (che per entrare nella parte
ha vissuto per tre mesi in isolamento in una caverna delle montagne
del Tennessee, dove è ambientato il film), fedele in questo allo
spirito del romanzo, non cerca spiegazioni sociologiche, si limita a
raccontare una ballata selvaggia, accompagnata dalla bella colonna
sonora folk di Aaron Embry, sul malessere americano, sulla perdita
della propria umanità.
Un film “duro” e difficile, ma affascinante, quello che manca però,
rispetto al romanzo è un legame di empatia con il personaggio, che non
percepiamo mai emotivamente vicino: non riusciamo né a condannarlo
fino in fondo, né a sentirlo in qualche modo nostro.
L'approccio freddo, quasi naturalista del regista ci fa rimanere
distanti, spettatori attoniti dell'orrore.
|