Forse
tutti noi non siamo altro che cani randagi. E i cani randagi
dell’ultimo - e pare, dolentemente definitivo - film di Tsai
Ming-liang, quei corpi vagabondi, avulsi e dolorosamente stratificati,
sono posti lì davanti a noi proprio per rimarcare, nella loro
spirituale essenzialità taoista, la nostra comune intrinseca
inconsistenza di fronte all’universo. Ed è da ricercare proprio nel
costante confronto estetico con la realtà che ci circonda, che per il
regista trapiantato a Taiwan si rivela a tutti gli effetti come una
esplorazione gnoseologica, il canto del cigno dell’intera architettura
funzionale del cinema. Tale è lo sviluppo di un sistema di
intrattenimento, oramai, pur su diversi livelli, consolidato per
compiacere, ricreare e guidare l’ideologia del desiderio, che
l’intransigente libertà espressiva del film di Tsai Ming-liang finisce
confinata come memoriale della resistenza al consumo compulsivo di
storie. Sì perché
Stray Dogs
non sviluppa una trama: niente inizio, sviluppo, fine. Quindi,
abbandonando la narrazione, cosa resta? Cosa possediamo? Siamo sicuri
di (non) possedere qualcosa?
I protagonisti silenti del film, un padre con i suoi due figlioli,
vagano in una Taipei folle e divorata dal consumismo, una sorta di
discarica che fagocita e mastica l’esistenza, alla ricerca di una
possibile Arca di Noè che permetta loro di sopravvivere. Lui (come
sempre interpretato da Lee Kang-sheng) per guadagnare da vivere
trascorre il giorno sorreggendo e indossando cartelloni pubblicitari
di appartamenti di lusso con ridicoli nomi di località esotiche,
mentre i figli cercano qualche forma di svago e piacere con i servizi
(aria condizionata, bagni, giochi, cibo gratis…) offerti nei centri
commerciali. Di notte dormono abbracciati sullo stesso materasso
dentro qualche baracca sprovvista di luce e acqua. Ad un certo punto
una donna (interpretata da tre volti cari al regista) si unisce alla
famiglia.
Questi personaggi si compiono nel loro evidente (per)(e)sistere, nella
quotidiana dilatazione dei loro gesti, e infine in una
riappropriazione di un’integrazione con lo spazio che li circonda. Per
Ming-liang questi divengono gli elementi costitutivi della trama, e
non semplici mezzi per lo svolgersi di un componimento. Il tempo
necessita così di essere cristallizzato dall’ansia dell’accadere,
riacquisendo un valore empatico e primordiale, nel quale dentro a un
apparente immobilismo sgorghi dirompente e tragica la vita.
Avvicinandosi al sentimento scaturito dal compiersi del tempo vediamo
trascendere l’impulso dell’interrogazione dell’attesa: trasalgono i
fantasmi, e la condivisione di una perdita, il silenzio fecondo di un
abbraccio, o l’inghiottire possessivo e viscerale di una verza,
finalizzano una partitura proiettiva debordante.
Ogni elemento costitutivo della messa in quadro rappresenta esso
stesso un personaggio, attivo e in dialogo con gli altri personaggi:
lo sono le rovine, le case abbandonate, le strade affollate, la
spiaggia, il bosco, il supermercato; e la desolazione è il sentimento
che li unisce sempre. Lo sono gli elementi naturali: l’acqua, sotto
forma di pioggia, stagno, lacrime, urina. Lo è il cibo: il pollo, la
verza, il riso, i quali possono reagire a contatto con la bocca in un
rapporto voluttuoso o orrorifico. Lo è infine il rumore senza filtri,
e il paesaggio del murale nella casa fatiscente, riverbero risolutivo
di uno straziante ideale.
La straordinaria e immutabile ricchezza dell’arte di Tsai è la potenza
del sensibile, del tattile, che nel suo cinema si rende esperienza
vivida e vivente senza l’ausilio dell’effetto speciale. È l’uomo
stesso, nella sua abulica limitatezza e insieme misteriosa capacità
adattiva a imporsi come visione speciale, a elicitare una profonda
coscienza emotiva infinitamente declinabile. Non è necessario
riflettere, ma abbandonarsi al rapimento delle immagini, al loro
svelamento attraverso il desiderio inquieto celato negli occhi di chi
le osserva. Come fosse uno specchio, lo schermo elabora e articola un
fuori campo interiore dello spettatore, che attivamente plasma il
processo creativo a cui è sottoposto, fino a rievocare un’esperienza
vissuta.
E se dunque, come sostiene Zizek, tutti i film moderni sono in
definitiva film sulla possibilità o l’impossibilità di fare un film,
Ming-linag con l’ultima ardita, sublime eppure limitata inquadratura
conclusiva, svuota ogni eccedere della speranza per congedarsi nella
metafisica della sospensione e dell’abbandono. Come cani randagi gli
occhi continueranno a vagare tra ammassi di immagini duplicate e
consunte, ma il tempo questa volta sarà perduto in un abisso perverso
e raggelante nel quale le pupille non incontreranno più l’oggetto del
loro godimento.
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