Una
storia di orchi: un omaccione in mutande e canottiera che occupa imponente
il bagno di casa e tiene una pistola nella valigia, un altro più
mingherlino e incattivito che si chiama il Teschio e, anche lui in
mutande, canottiera e stivaletti anfibi, balla e canticchia Parole,
parole di Mina e Alberto Lupo in mezzo alla campagna, un guardiano di
porci che sembra uscito da un incubo e ha ormai la stessa faccia degli
animali che sorveglia. Persino il proprio padre, tanto atteso e giocoso e
generoso, può diventare l'orco che divora...
Sospeso tra il sole accecante di un'estate meridionale riflessa sul grano
e l'oscurità fonda di un buco scavato nella terra e coperto da una
lamiera,
Io non ho paura,
il film che Gabriele Salvatores ha tratto dal romanzo omonimo di Niccolò
Ammaniti (che l'ha sceneggiato, con Francesca Marciano), ha l'andamento
pigro e casuale e poi pauroso e "predestinato" di una fiaba. Nel mezzo
dell'estate, un bambino bruno che ha poco da fare se non giocare randagio
con gli amici scopre in fondo a un buco un altro bambino, biondo, tenuto
alla catena, affamato, sporco, ormai quasi incapace di vedere. Si chiamano
Michele e Filippo, hanno la stessa età e sanno tutti e due che l'unica
maniera per sopravvivere alle loro paure é affidarsi all'immaginazione,
agli orsetti lavatori, agli angeli custodi, alle storie che ci si racconta
nel buio e alle filastrocche con le quali attraversare le strade invase
dalla notte. Ma gli esorcismi che tengono indietro i mostri misteriosi
dell'infanzia non proteggono invece dagli orchi veri, quelli più
pericolosi, i grandi. Il viaggio di Michele e Filippo é quello alla
scoperta della brutalità del mondo reale, nascosta dietro le fattezze e i
luoghi più familiari. Un viaggio che, prima o poi, arriva in ogni
infanzia. Io non ho paura vede con i loro occhi, sente con le loro
sensibilità, capisce al volo, come tutti i bambini capiscono, molto di più
di quanto i grandi non credano. Ha la loro lealtà, la loro fragilità (un
grande segreto in cambio di una macchinina, lo stesso segreto in cambio di
una vera lezione di guida),la loro incosciente generosità. Il grande
merito di Salvatores è di aver fatto un film esattamente ad altezza di
bambino, di aver lasciato ai grandi (tutti i grandi) lo spazio che si
meritano: orchi appunto, minacciosi, o stupidi, o, sempre vigliacchi.
Mentre i bambini cosa sia la vigliaccheria non l'hanno ancora imparato.
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E'
l'allineamento tra estetica ed etica nel cinema di Salvatores, alla fine
di una ricerca decennale che, puntata sul primo o sul secondo termine, sui
prestiti e sugli stili, lasciava insoddisfatti, eppure convinti dei
potenziali risultati. Nel romanzo omonimo di Ammaniti il regista di
Mediterraneo
e
Denti
ha trovato un punto di vista eccentrico e insieme bilanciato per liberare
doti di percezione emotiva (da cinescrittore) e audiovisione organica (da
autore): non soltanto la cinepresa è fisicamente ad altezza del bambino
protagonista, cercando una sorta di "io" oggettivo, ma è il film a
muoversi col pubblico ad altezza d'uomo. La storia la conoscono già tutti:
Michele scopre Filippo, un bambino conosce la rapacità umana. La campagna
riarsa del Sud, i cieli incombenti, la plastificazione studiata del reale,
la palpabilità dell'ignoto, la denuncia del degrado familiare, la
solidarietà nell'infanzia, l'incarnazione del destino malvagio (Abatantuono
un po' dipinto): il cinema scorre e alimenta lo spettatore. Non è nuovo,
ma è vero.
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