Na ri xiawu
Tsai Ming-liang
- taipei cinese 2015 - 2h 17'

Venezia 72 - Fuori concorso

    “Fuori dagli sche(r)mi”, come li definirebbe qualcuno, non sono esclusivamente quei registi estranei ai caratteri e alle dinamiche del cinema popolare, piuttosto che mainstream. Che si tratti di autori con la A maiuscola, di un cinema intimista e magari radicale, o giocolieri capaci di piegare le dinamiche industriali alle esigenze della propria firma – differenti quindi tutti per stile, tematiche e approccio al mezzo cinematografico – li accomuna trasversalmente l'esclusione dalla più o meno convenzionale routine distributiva. Tra l'abnorme durata di un film di Lav Diaz e i deliri convulsi delle produzioni di Shin'ya Tsukamoto, passando per l'eccesso iconoclasta di un Ulrich Seidl, si delineano le coordinate di un universo cinematografico altro, cioè che è altrove, cioè che è estraneo alla più grossa fetta di spettatori; spesso anche a coloro che non si limitano a frequentare i multisala. Compito dei critici e dei festival è ovviamente anche quello di accorciare le distanze tra il pubblico e quel cinema pressoché invisibile, ma è altrettanto importante cogliere come nello scarto, nella difficoltà di fruizione e reperibilità, e quindi nello sforzo della ricerca, si instauri il dialogo fondamentale tra un film e chi lo vede.
Proprio per questo è stata accolta come un evento la presentazione alla 72a Mostra d'Arte Cinematografica di
Afternoon (Na Ri Xiawu). Relegato in sale piccolissime, l'ultimo lavoro del taiwanese Tsai Ming-liang è stato abbracciato dal sovrabbondante pubblico presente per l'occasione con un calore e un affetto che si dedicherebbero al più caro degli amici. Ci si scopre ad aspettare Afternoon come un regalo speciale, con gli occhi ancora doloranti dalla visione di Stray Dogs, col bisogno di essere consolati dopo la dichiarazione del regista di volersi prendere una pausa (forse definitiva) dalla realizzazione di nuovi lungometraggi.
Interno giorno nell'angolo di un rudere, due finestre senza infissi si aprono sul verde di una foresta in picchiata senza fine, due poltroncine vuote. E quando lo spazio scenico viene finalmente occupato da Tsai Ming-liang e il suo attore feticcio Lee Kang-Sheng inizia maldestramente una chiacchierata travolgente e intima che costringere anche lo spettatore a fare i conti col proprio ruolo. Perché in quel campo fisso, interrotto da soli tre stacchi di montaggio, si consuma un'esperienza cinematografica che non è solo li e in quel momento ma è ovunque e in un ricordo passato, nella coscienza della morte e nello scherzo, nel linguaggio del cinema e nel bisogno d'amore. Inizialmente il regista fatica a trovare le parole; e se pensassero che sto recitando? Ma non c'è finzione alcuna nel bisogno del racconto il film sboccia come un fiore mentre Tsai si confessa; parla della propria omosessualità, del suo cinema e dell'esperienza della malattia come un fiume che Lee accoglie, più spesso silenziosamente.
L'armonia più tipica delle filosofie orientali rimbalza su ricordi sgangherati e si rituffa in una rinnovata dichiarazione d'affetto, mentre le varie formule del linguaggio si definiscono come una necessità. Il ricordo di un singolo è repertorio anche per chi lo riceve, nel mettere a nudo se stesso Tsai porta lo spettatore a fare lo stesso proprio in quanto tale, in un dialogo a cui si può rispondere ridendo, commuovendosi o perdendo lo sguardo alle spalle dei due interlocutori. È semplicemente bellissimo poterne fare parte, pur non appartenendo alla scena, come le mani di fotografi e tecnici che ogni tanto impallano l'inquadratura. Tsai e Lee resteranno li “finché c'è luce”: ed è decisivo e devastante.

Valentina Torresan - ottobre 2015 - pubblicato su MCmagazine 38