“Fuori
dagli sche(r)mi”, come li definirebbe qualcuno, non sono
esclusivamente quei registi estranei ai caratteri e alle dinamiche
del cinema popolare, piuttosto che mainstream. Che si tratti di
autori con la A maiuscola, di un cinema intimista e magari radicale,
o giocolieri capaci di piegare le dinamiche industriali alle
esigenze della propria firma – differenti quindi tutti per stile,
tematiche e approccio al mezzo cinematografico – li accomuna
trasversalmente l'esclusione dalla più o meno convenzionale routine
distributiva. Tra l'abnorme durata di un film di Lav Diaz e i deliri
convulsi delle produzioni di Shin'ya Tsukamoto, passando per
l'eccesso iconoclasta di un Ulrich Seidl, si delineano le coordinate
di un universo cinematografico altro, cioè che è altrove, cioè che è
estraneo alla più grossa fetta di spettatori; spesso anche a coloro
che non si limitano a frequentare i multisala. Compito dei critici e
dei festival è ovviamente anche quello di accorciare le distanze tra
il pubblico e quel cinema pressoché invisibile, ma è altrettanto
importante cogliere come nello scarto, nella difficoltà di fruizione
e reperibilità, e quindi nello sforzo della ricerca, si instauri il
dialogo fondamentale tra un film e chi lo vede.
Proprio per questo è stata accolta come un evento la presentazione
alla 72a Mostra d'Arte Cinematografica di
Afternoon (Na Ri Xiawu).
Relegato in sale piccolissime, l'ultimo lavoro del taiwanese Tsai
Ming-liang è stato abbracciato dal sovrabbondante pubblico presente
per l'occasione con un calore e un affetto che si dedicherebbero al
più caro degli amici. Ci si scopre ad aspettare
Afternoon
come un regalo speciale, con gli occhi ancora doloranti dalla
visione di
Stray Dogs, col bisogno di essere consolati dopo la
dichiarazione del regista di volersi prendere una pausa (forse
definitiva) dalla realizzazione di nuovi lungometraggi.
Interno giorno nell'angolo di un rudere, due finestre senza infissi
si aprono sul verde di una foresta in picchiata senza fine, due
poltroncine vuote. E quando lo spazio scenico viene finalmente
occupato da Tsai Ming-liang e il suo attore feticcio Lee Kang-Sheng
inizia maldestramente una chiacchierata travolgente e intima che
costringere anche lo spettatore a fare i conti col proprio ruolo.
Perché in quel campo fisso, interrotto da soli tre stacchi di
montaggio, si consuma un'esperienza cinematografica che non è solo
li e in quel momento ma è ovunque e in un ricordo passato, nella
coscienza della morte e nello scherzo, nel linguaggio del cinema e
nel bisogno d'amore. Inizialmente il regista fatica a trovare le
parole; e se pensassero che sto recitando? Ma non c'è finzione
alcuna nel bisogno del racconto il film sboccia come un fiore mentre
Tsai si confessa; parla della propria omosessualità, del suo cinema
e dell'esperienza della malattia come un fiume che Lee accoglie, più
spesso silenziosamente.
L'armonia più tipica delle filosofie orientali rimbalza su ricordi
sgangherati e si rituffa in una rinnovata dichiarazione d'affetto,
mentre le varie formule del linguaggio si definiscono come una
necessità. Il ricordo di un singolo è repertorio anche per chi lo
riceve, nel mettere a nudo se stesso Tsai porta lo spettatore a fare
lo stesso proprio in quanto tale, in un dialogo a cui si può
rispondere ridendo, commuovendosi o perdendo lo sguardo alle spalle
dei due interlocutori. È semplicemente bellissimo poterne fare
parte, pur non appartenendo alla scena, come le mani di fotografi e
tecnici che ogni tanto impallano l'inquadratura. Tsai e Lee
resteranno li “finché c'è luce”: ed è decisivo e devastante.
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