Il film
di guerra ha una sua florida tradizione, temprata dalla
campagna di propaganda americana per la seconda guerra mondiale (basta
il nome di Hawks), con sporadiche occhiate non acclamatorie (da
Westfront di Pabst e All'ovest
niente di nuovo di Milestone, entrambi del 1930, a
Uomini
contro di Francesco Rosi, 1970), un baluardo di lirismo
pacifista
(La grande illusione - Jean Renoir
1937) e molte esplosioni di eroismi, commozioni e lieti finì, manicheismi
spesso calcatissimi e kolossal produttivi da ascrivere nella storiografia
commercial-cinematografica. Personalmente del vecchio bagaglio hollywoodiano
della "war-opera" ricordo, sfuocato, con un vago affetto,
il mediocre All'inferno e ritorno
(1955) col pluridecorato Audie Murphy, poi assecondo inconsciamente
il mio antimilitarismo ormai svezzato con un nero buco di memoria
in cui riescono comunque a
farsi
luce "pezzi da novanta" quali Il
ponte sul fiume Kwai (DavidLean 1957),
I
cannoni di Navarone (Jack Lee Thompson 1961) e
Quella sporca dozzina (Robert Aldrich1967). Le mie competenze
belliche crescono però, decisamente, negli anni 70: inizia
Mash (Robert Altman1969) con l'ironia che sanguina dall'ospedale
militare Usa in Corea, avamposto convulso di morte e di scherzi, di
sesso e di solidarietà umana, mentre é ancora la seconda guerra mondiale
a fare da humus ad un film come
Comma 22
(Mike Nichols 1970) che carica ancor più introspettivamente ed istituzionalmente
il linguaggio metaforico di cui ci bombarda l'assurdità yossariana,
in cui «l'aeroporto militare diventa un microcosmo, la guerra uno
stato della mente e della coscienza»
1.
Ma il vero "battesimo del
fuoco" col genere é di questi ultimi anni ed il tema del conflitto
vietnamita, della "sporca guerra" é ormai così familiare
che il processo identificatorio con la problematica americana sembra
completato: dal mito fordiano del western (Ombre
rosse, 1939) al culto giovanile del road-movie (Easy
rider - Dennis Hopper 1969), dal formicolio corporeo per
le femmine fatali (Rita Hayworth, Gilda
1942 - Marilyn Monroe, Niagara
1953...) allo scrutare il cielo per una mistica nuova frontiera
(lncontri
ravvicinati del terzo tipo 1978), un fitto pacchetto
immaginifico ha gemellato emotivamente nuovo e vecchio continente
ed ora la cruda denuncia dell'imbecillità 2
della guerra accomuna una volta di più gli spiriti, al di là dei giudizi
politici di parte o della ricerca delle responsabilità, più o meno
oggettive. «Se Dio é dalla nostra parte impedirà la prossima guerra»
"pregava" Dylan nel 1964 (With God on Our Side da
The Times they are A-changin'), ma l'intervento americano nel
Vietnam arrivava già l'anno seguente e nel 1968 ai moti studenteschi
contro la guerra ed alle cartoline di precetto bruciate sul set di Hair
3
rispondeva il Wayne "falco" di I
berretti verdi.. Ora, dopo il "bagno risanatore"
nelle acque del Watergate, che hanno "annegato", per la
comodità dei più, l'unico (!) capro espiatorio (leggi Richard Nixon,
presidente), l'America si é sbilanciata in un esame di coscienza aspro
e colpevolista (anche se Carter ha dichiarato «Parliamo del Vietnam,
ma senza batterci il petto») e quale forma di riflessione può dirsi
più appropriata del cinema, il fratello maggiore del canale televisivo
("cronista" per eccellenza, in tutti gli anni di guerra,
dei fatti vietnamiti), la tradizione culturale più essenzialmente
americana, la primaria riserva d'immaginario e di realtà per il popolo
della frontiera perenne, più che mai mitizzata e rigenerata proprio
dall'Hollywood system.
Ed il Vietnam si presenta appunto come una frontiera di
troppo, un'esperienza di cui l'America avrebbe dovuto
fare a meno, cosi come la guerra in se stessa risulta
un'istituzione assurda e tragica per l'umanità. Quindi
se il tema é vitalissimo negli Stati Uniti e globalmente
universale, "benvenga" l'impegno commerciale
dell'industria Usa, con le Majors in prima fila, pronte a
tradurre le lacrime del rimorso e dell'autocritica in
tintinnante bilancio all'attivo.
Giusto un film pluridivistico (Dirk
Bogarde, James Caan, Sean Connery, Robert Redford ecc.)
per i nostalgici delle "guerre pulite" (Quell'ultimo
ponte - Richard Attenborough, 1977) e poi via al
dilagare del "Nam-film" con un'attività
produttiva diversificatissima e tre iceberg a svettare
sulla banchina tematica: Apocalypse now,
Il
cacciatore e Tornando a casa.
Quest'ultimo
chiarisce subito il nuovo sguardo con cui Hollywood si
focalizza sull'argomento ed il confronto con
Vittorie perdute (Ted Post, 1977), arrivato in Italia quasi
contemporaneamente, evidenzia la differenza di ottica
strutturale: il film di Post (come pure The boys
in the company C. di Sidnley Furie) ci porta decisamente
in loco bellico, sul fronte vietnamita (Muc Wa, 1964)
dove un gruppo di soldati americani cerca di
riconquistare una postazione nemica, un tempo occupata
dai francesi. La caratterizzazione é marmorea, specie
nella figura del maggiore (un deciso Burt Lancaster),
ruvida la presa di posizione ideologica («questa é
una gita per fessi»... «noi non
c'entriamo, questa guerra riguarda solo i Vietnamiti»)
così che, superata con un po' di retorica l'ispida
situazione, la vicenda si presta ad un gioco commerciale
che trasforma l'analisi della guerra in una
rappresentazione a tinte forti degli schematismi del
genere.
Love story per un reduce
Tornando
a casa (Hal Ashby, 1978 - oscar
78 per la migliore sceneggiatura originale) affronta invece
il problema all'interno della società americana, ponendo la sua attenzione
sulla situazione dei reduci, con il proposito di «ridefinire la
nozione di patriottismo e virilità». Sally (Jane Fonda), allorché
il marito (Bruce Dern), ufficiale di carriera, pane baldanzoso per
il Vietnam, trova opportuno fare qualcosa di più che un giornaletto
di propaganda militare con le sue "amiche del tea" e si
impegna come infermiera in un ospedale dove gli sfortunati, ex-gloriosi
soldati portano i segni evidenti dell'insana violenza della guerra
e si preparano a vivere il resto della loro vita prigionieri o di
una sedia a rotelle o degli scompensi del loro perduto equilibrio
mentale. Tra questi, Sally ritrova Luke Martin
(Jon Voight), suo vecchio compagno di scuola, una volta esuberante
giocatore di football, ora paralizzato dal bacino in giù. Tra il pietismo
dell'ambiente e l'acidità sociale di chi "ha capito" a proprie
spese (Luke per protesta si incatena al cancello di una base militare),
i due arrivano prima ad un profondo rapporto di amicizia e di comprensione,
quindi ad una passionale relazione d'amore, esaltata dalle invenzioni
erotiche con cui il paraplegico sopperisce alle proprie deficienze
fisiche (!). Quando Bob, il marito, torna a casa, viene informato
brutalmente del tradimento (l'FBI aveva pedinato Luke per i suoi atteggiamenti
"sovversivi') cosi che al trauma nazionale («alla
tv ti fanno vedere com'è, ma certo non ti fanno vedere
cos'è») si somma quello domestico ed il poveraccio dapprima minaccia
una strage, poi, anche se Sally gli ha promesso di rimanere al suo
fianco, sceglie di entrare nell'oceano per una nuotata senza ritorno.
Siamo di fronte ad un calderone di riflessioni, dal monito della realtà
sconvolgente della guerra ai risvolti umani del reinserimento, nel
quale Ashby, contando sul mestiere dei tre protagonisti (la Fonda-oscar
78 come attrice protagonista e
pure Jon Voight, premiato a Cannes
78 e con l'oscar
78 per quest'interpretazione),
innesta a suggello anche il problema della liberazione della donna.
Tutti gli spunti però si accavallano senza realizzarsi compiutamente,
i punti d'impegno si risolvono con banalità, la retorica si fa strada
e Tornando a casa nell'insieme
sa troppo di calcolo commerciale, con un ritmo soppesato tra silenzi
chiarificatori e dialoghi scontati, frasi sagge roboanti («noi
marines non siamo più la crema, siamo la feccia»... «volevo solo essere
un eroe») e lo stucchevole fotoromanzo che culmina nella parentesi
sexy del letto di Luke. Restano i soffici colori ed il taglio fotografico
di Haskell Wexler; l'atmosfera del commento musicale d'epoca (dai
Beatles ai Rolling Stones, dai Jefferson Airplane ad Hendrix e Dylan),
un po' di simpatia per lo squinternato Bob che scompare amaramente
tra i flutti (che pena, in confronto, il lacrimevole comizietto di
Luke che il montaggio ci propone in parallelo!) ed i dubbi sulla professionalità
artistica di Hal Ashby che, al rigore stilistico di
L'ultima corvée (1973), non é più riuscito a far seguire
lavori altrettanto calibrati (Shampoo
e Questa terra é la mia terra).
Certo sembra davvero che il
"ritorno" sia un post-incubo altrettanto
alienante, non solo per chi ci ha rimesso nel fisico (ma
meglio di Tornando a casa é allora lo struggente
E
Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo (1971) con il
protagonista ridotto ad un troncone umano, volutamente
dimenticato dalla "pietà" sociale), ma
altrettanto per chi ha lasciato nelle boscaglie asiatiche
la propria stabilità psicologica. É il caso della
follia moral-devastatrice di Travis Bickle nel
famosissimo Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) o
dei protagonisti di
Le mele marce (Peter
Collinson 1974) che al rientro in patria sfogano il
sadismo inumano assimilato al fronte sugli ignari
americani che si godono la natura ed i paesaggi
incontaminati; e da qui si può risalire ai primi
tentativi di analisi post-vietnamita in pellicole
semisconosciute: Glory boy (E. Sherin, 1971), un
melodramma a quattro (tre reduci ed il padre di uno di
loro) che sconvolge la casa dove si ritrovano,
Il
piccione d'argilla (opera artigianale, sempre del 71,
di Tom Stern e Lane Slate in cui un ex-decorato scopre
l'onnipresenza della violenza, anche in una comunità
hippy ove si é stabilito) e specialmente
The
Visitors (1972) di Elia Kazan.
Prettamente teatrale, sviluppato essenzialmente in un
paio di stanze, questo film (sceneggiato e prodotto dal
figlio di Kazan, Chris) é quasi una lezione alle giovani
leve di come fare un'opera alternativa in tecnica
(Super16) e contenuti su un tema come il Vietnam: due
commilitoni fanno visita a Bill (James Woods) che vive
quasi isolato con la sua donna ed il loro bambino; Tony e
Mike "devono" a Bill una denuncia e la relativa
condanna per violenza carnale su una giovane vietnamita e
l'atmosfera di tensione che si crea nella casa sfocia in
una selvaggia lotta. Se la struttura stilistica sembra
troppo "caricata", sia nella scelta della
lentezza narrativa, sia nei giochi psicologici (da quello
del "ritorno del rimosso" a quello della
situazione dei "senza scampo"), e se sul tutto
grava, oltre la logica, l'ambivalenza del personaggio
femminile (non sufficientemente approfondito per
giustificarne gli eccessi sentimentali e sessuali),
spicca comunque in The Visitors una pulsazione
emotiva davvero ostile e sgradevole, quale forse poteva
essere la condizione dei giovani yankees in terra
indocinese.
Non é detto però che i traumi, anche interiori, siano
manifesti e facilmente classificabili. La violenza
accumulata può scoppiare quando dei delinquenti uccidono
la moglie di un ex-marine, portandolo a compiere una
strage (Rolling Thunder di John Flynn) oppure le
brutture della guerra possono aver tarato "il
nostro" nel profondo mentre in superficie tutto
scorre normalmente: in
Heroes (Jeremy Paul Kagan, 1977) Jack (Henry Winkler),
un reduce scanzonato ed impulsivo, fugge da un ospedale
di rieducazione, dove era stato rinchiuso per
intemperanze antimilitariste. Sull'autobus per Kansas
City incontra Carol (Sally Field), che ha deciso di
concedersi un viaggetto di riflessione prima delle sue
nozze, orma iimminenti... Siamo nel tono simpatico della
soft-comedy (come non citare Accadde una notte),
ma lo stimolo coscientizzante é fatto lievitare con
furbizia ed é di sicuro e costruttivo effetto la scelta
tecnica che in chi usura fa esplodere nel protagonista
gli incubi della tragedia vissuta: il flash-back
esplicativo sul Vietnam trascende l'ovvio realismo della
ricostruzione ambientale mostrandoci, con un riuscito
esercizio di trasposizione ed immedesimazione visiva, i
momenti della guerra, rivissuti con tutta l'atrocità
della battaglia, materializzati nelle vie della città di
Eureka (!), in quel contesto urbano in cui Carol, ormai
innamorata (potenza del lieto fine!), aiuterà Jack a
reinserirsi.
Se dunque il clima avventuroso delle azioni belliche é
una sicurezza commerciale e se la ponderazione sui
tormenti del reduce è garanzia di pregnanza
contenutistica, perché allora non fondere i due aspetti
e, sorreggendoli con una appropriata sicurezza
stilistica, non cercare di sublimare la compartecipazione
emotiva del pubblico?
La
roulette russa degli ideali
Ecco
così Il cacciatore
(Michael Cimino, 1978: 5
oscar
nel 79:
miglior film, regia, attore non protagonista, montaggio e sonoro)
un'opera di grande impatto spettacolare, ora vicina ad uno stoico
melodramma, ora crudelmente realistica, che nel "grandguignol"
dei giochi di sangue lancia stimoli d'interpretazione politica e logica
esistenziale. La prima ora del film (il tutto supera le tre ore) si
sviluppa in una realtà quasi documentaristica, dagli abbacinanti forni
della fabbrica alle ritualità, religiose e non, della vita operaia
in una comunità russa degli States. Siamo agli inizi degli anni 70
e tre amici trascorrono gli ultimi giorni prima della fatidica partenza
per il Vietnam: Steven (John Savage) fa giusto in tempo a sposarsi
(il contorno del matrimonio é la struttura portante di questa parte
iniziale), Nick (Christopher Walken) promette il suo "si"
a Meryl Streep e Michael (Robert De Niro), che sotto sotto ama la
fidanzata dell'amico, organizza l'ultima battuta di caccia al cervo.
Non si rendono ben conto di cosa li
aspetti (solo Nick esterna qualche dubbio sul futuro comune: «Se
torniamo... voglio dire, quando torniamo...») e tutto il contesto
sociale che li attornia odora di una goliardica superficialità ideologica,
incrinata solo talvolta dagli strali individualistici di Mike («non
posso farci niente se la penso cosi») che accetta solo esternamente
la meschina familiarità di gruppo e che professa nella caccia uno
stile da"maniaco idealista" («il cervo non ha il fucile.
Deve essere preso con un colpo solo, altrimenti non è leale»).
La tragedia della guerra spazza presto discussioni
filosofiche e stramberie personali; i tre si ritrovano
prigionieri, trasformati in "volontari"
partecipanti ad una "roulette russa", costretti
a puntarsi la pistola alla tempia per soddisfare il
sadico divertimento dei Cong, che scommettono il loro
denaro sulle cervella altrui. É un momento di forte
tensione, ben dosato da Cimino, ed anche sapendo che
Mike, Nick e Steve con l'indispensabile azione eroica
riusciranno a sfuggire all'infame segregazione, resta
l'attesa di quei colpi di pistola che non si sa mai se
risulteranno a vuoto o mortali. Dalla fuga al ritorno in
patria la via non é però così facile e solo Michael
riesce a ritrovarsi intero ed abbastanza equilibrato tra
le mura di casa. Steve ha perso le gambe ed un braccio e
Nick lo si sa disperso in quel di Saigon. Mike comunque,
che dagli orrori della guerra ha preso coscienza del
surplus di violenza di cui ci circondiamo, non ha più il
coraggio di bersagliare i cervi e non se la sente neppure
di tenersi al fianco l'amica senza aver tentato di
riportarle Nick. Cosi torna a Saigon e nello squallore di
una città in evacuazione (di uomini e di valori) ritrova
l'amico invischiato in un abbrutente "remake» della
roulette russa (giocata qui non per coercizione ma per
follia collettiva), campione di uno sport di morte col
quale procacciarsi denaro. Ma Nick, macchina da gioco,
non vuole riconoscere Mike e questi si lascia coinvolgere
nel rito suicida, pur di potergli stare vicino... Non
riuscirà a riportarlo via vivo però: quando Nick
riafferra un barlume di coscienza, quando riesce a
sorridere al passato, il suo ruolo di giocatore
invincibile viene a cadere ed all'ennesimo click della
pistola segue la deflagrazione e lo straziante squarcio
di un essere umano.
Sul feretro piangono in patria gli amici ed al ritorno dal cimitero
si riuniscono intorno ad un tavolo a mangiare, a brindare all'amico
perduto, a cantare, in un coro casereccio, il salvifico "God
Bless America". Superando l'ambiguità del tonificante (?) finale
e della bieca visualizzazione del nemico 4 con l'ondata
di sgomento che sgorga dal quadro figurativo globale (dai cadaveri
dei perdenti accumulati come spazzatura per le vie di Saigon all'incosciente
meccanicità con cui la vita viene appesa al filo di un colpo d'arma
da fuoco), Cimino (al suo secondo film, dopo
Una calibro 20 per
lo specialista, 1974) descrive .con tenace convinzione non una
categoria sociale od una presa di posizione politica, ma la situazione
esistenziale di individui impreparati a vivere quasi più in pace che
in guerra. La divisa che Mike non smette di indossare al suo ritorno
a casa stona nel contesto civile così come la guerra stride in quello
umano ed i passatempi fatti di armi e di spari (sia la scenografia
"ecologica" della caccia sia la stupida tracotanza di chi
possiede una pistola per difesa personale) risultano non solo inutili,
ma meschini se fronteggiati con la barbarie di sangue dei conflitti
bellici. É possibile che il cacciatore-DeNiro (attore sempre più completo
e di grande caratterizzazione psicologica
5 abbia un po' preso la mano al regista che forse puntava su un
affresco corale di ritualità sociali (il lavoro, il matrimonio, la
guerra, l'accoglienza del reduce e poi ancora la caccia, l'amicizia,
il funerale...) piuttosto che su un apologo ammonitore della traumatizzazione
della violenza, ma alla resa dei conti l'individualismo americano
sprizza veemente dai pori de Il cacciatore e nell'atteggiamento
di Mike, nel suo non convinto "requiescant" finale, nel
suo sguardo attonito, mentre sorregge la testa dell'amico grondante
di sangue, c'è l'interrogativo angoscioso di tutta una generazione
all'America delle grandi sicurezze ed a quanti puntellano ancora sull'eroismo
del singolo e sull'interventismo risanatore le motivazioni di una
bestialità comune che nella guerra perde e trova (a livello di monito)
il bandolo del rispetto della vita e del la pace..
In questo
senso, con tutte le sue sfaccettature, anzi forse proprio
per queste, il film di Cimino resta tra i più riusciti
sulla questione vietnamita, certo in maggior misura di
I guerrieri dell'inferno (Karel Reisz, 1978) che, con qualche impennata
figurativa ed un ritmo altalenante, descrive le
peregrinazioni di un ex-marine (Nick Nolte) che deve
consegnare alla moglie di un commilitone un pacchetto
d'eroina: il Vietnam appare più che altro un pretesto,
il tutto finisce in un'avvincente caccia all'uomo, con
catarsi finale.
Ma c'è un
altro ex-marine (Tracks, Henry Jaglom, 1975) sulle vie d'America,
incaricato di trasportare qualche cosa in qualche dove:
stavolta però il "carico" é il feretro di un
compagno d'armi caduto al fronte, la destinazione é il
cimitero di una piccola città ed il protagonista, Jack
Falen (Dennis Hopper), resta per quasi tuffa la durata
del film sul treno a scoprire le proprie insicurezze
psicologiche, l'amarezza di un "the end" sempre
troppo tardivo (l'annuncio da parte di Nixon della fine
della guerra, 23gennaio 1973), l'impotenza ad incontrare
l'amore con Stephanie (Taryn Power), soprattutto
l'impossibilità di un vero reinserimento nella società
civile: arrivato a destinazione, deposta la cassa, Jack
balza nella fossa e, scoperchiata la bara, ne estrae
inaspettatamente delle armi. Il fermo-fotogramma lo
blocca mentre esce agguerrito da quella
"trincea", pronto all'assalto... Il
rito-Vietnam continua.
E se la guerra é un rito, barbaro, magari freudianamente liberatorio,
violentemente apologetico dell'inciviltà umana e se "the Nam"
é stato ed é la spina nel fianco del" paese dell'indipendenza
colonialistica" di Jefferson, ne consegue che non bastano film
caustici e brutali per sotterrare il ricordo di "Charly"
6, occorre qualcosa in più, qualcosa di colossale e dirompente,
nell"'over" e nell"'underground" immaginifico.
"The
End" per Willard e Kurtz
Siamo
ancora nel '68 ed un filmetto a 16 mm, tipo documentario, dal titolo
Apocalypse now frulla nelle menti
di George Lucas e John Milius, studenti di cinema della University
of Southern California. Poi però Lucas avrà di che pensare per realizzare
film-record (d'invenzione e d'incassi) come
American Graffiti (1973) e Guerre
stellari (1977) e Milius,
pur con una rispettabile produzione registica (Dillinger
1973, Il vento e il leone 1975
e Un mercoledì da leoni 1978),
si farà un nome soprattutto come sceneggiatore di rango
7.
Intanto nel progetto é entrato Francis
Ford Coppola, che ha riorganizzato la trama ispirandosi
a Cuore di tenebra di Joseph Conrad
8,
si é assicurato la cosceneggiatura dello stesso Milius e porta nell'impresa
la saggezza registica di chi ha al suo attivo
Non torno a casa stasera (1969) e
La conversazione (1973) e le tasche pingui
9
di chi ha costruito quel colossal commerciale che é stato Il padrino,
parte prima (1971) e seconda (1974).
Cosi nella primavera del '76 inizia la lavorazione, ma la maledìzione-Viet
sembra pesare sul film e dopo la "restrizione" del cast
(il rifiuto di Steve McQueen e Gene Hackman, l'abbandono di Harvey
Keitel dopo neanche due mesi) sul set piombano "tifoni, crisi
cardiache (proprio il protagonista Martin Sheen, ndr), attacchi di
follia, nevrosi"
10. A riprese ultimate (maggio 77) il boss Coppola ha crisi di
montaggio: deve ridurre le 15 ore di pellicola disponibili ad un film
da circuito commerciale e ci mette oltre due anni, giusto in tempo
per presentarlo a Cannes
79, e vincere, non senza qualche polemica
11, la Palma d'oro
(ex aequo con Il tamburo di latta di Schlondorff) ed allibire
critica e pubblico per "mezzi tecnici prestigiosi e potenti,
ispirazione creativa e superiore mestiere della regia, appassionata
partecipazione dell'autore" 12.
L'ouverture di
Apocalypse
now
inquadra figurativamente
tutta l'opera: in una squallida stanzetta di Saigon il capitano Willard
(Martin Sheen) vive i suoi giorni di incubo post-fronte mentre attende
ordini per una nuova missione. Nel suono vibrante di The End 13
(The Doors, 1967) c'è il fermento della sensualità dissacratoria di
Jim Morrison e di tutta la rock-culture degli anni 60, nella voce
fuori campo che in prima persona ci descrive l'ambiente («Saigon
che merda») c'è la citazione nostalgica del cinema letterario
tra il 40 e il 50 (sembra di sentire il roco soliloquio narrativo
del Marlowe chandleriano) e le immagini in "sovrapposizione",
il confuso turbinare di elicotteri ed esplosioni rivela subito la
chiave di lettura di un viet-film visionario nella struttura contenutistica
e nell'affresco formale. Quando Willard é convocato per l'assegnazione
dell'incarico già lo stile si fa più professionalmente freddo e mentre
viene messo al corrente che il suo compito é quello di eliminare un
fantomatico colonnello Kirtz (ex-soldato modello della premiata ditta
marines ed ora paranoico condottiero di una imprecisata comunità guerriera
che nella boscaglia compie stragi e distruzione) siamo quasi nello
spy-system, in cui però la ferrea necessità della missione sta al
di sopra di qualsiasi dubbio logico o morale.
Come il Marlowe (un altro!) di Conrad si imbarcava alla
ricerca del suo Kurtz cacciatore d'avorio, essenza dello
spirito imperialista e della tensione critica
individuale, così il "captain" di Coppola
parte su una motovedetta della marina alla caccia del
"nuovo" Kurtz hollywoodiano, alter ego
impazzito dell'imperialismo bellico. L'equipaggio che,
ignaro, accompagna l'immusonito Willard, rimpolpa il
fascino caratterizzante della situazione. Due negri e due
bianchi: il comandante di colore che fa da esecutore
troppo critico degli ordini dei superiori (finirà
trafitto da una lancia proprio sul finire del viaggio),
il giovanissimo "figlio del blues" che si
sgranchisce i muscoli con Satisfaction, il baffuto
che rimpiange il suo mestiere di cuoco, l'ex-campione di
surf dalla siringa facile. É una fauna caricaturale
assortita che serve a reggere l'atmosfera, dato che il
protagonista é già uscito dalla "dimensione della
missione" per entrare nel "trance del
quest". Assorto tra le scartoffie affidategli dal
quartier generale, ricerca il suo Kurtz, prima ancora che
fisicamente, a livello di entità umana e via via che il
gruppetto risale il fiume egli sempre più analizza i
dati del personaggio-meta, tende a mitizzarlo, ad
identificarvisi, ad interrogarsi sui contrasti etici tra
violenza riconosciuta (le guerre "nazionali") e
violenza "di frodo" (le scorribande
dell'esercito abusivo), sul fascino dell'uomo che lo
aspetta al di là dei confini "conquistati",
del territorio e dello scibile.
La motovedetta diventa l'imbarcazione su cui vaga "l'animo americano"
contemporaneo, compiendo "la ricerca archetipica sottoforma di
Viaggio preferibilmente per Acqua, suddiviso in episodi epici di Conoscenza
ed Errore" 14.
La prima fatica dell'Ercole della United Artist é la follia bellica
del comandante Kilgore («Amo il profumo del napalm la
mattina, odora di vittoria») che, al suono delle Walkirie wagneriane,
spiana un villaggio nemico per concedersi un'esibizione di surf. Poi
é l'apparizione delle conigliette di Playboy che, direttamente discese
dagli elicotteri, al ritmo di Suzie Q consolano una guarnigione
nella giungla, a mettere a dura prova i nervi dei cinque marines.
Quando incrociano un "sampan" finisce che una semplice operazione
di controllo si tramuta in un assassinio immotivato ed il far tappa
all'ultimo avamposto Usa sul Mekong é un'altra occasione per trasfigurare
l'allucinante realtà della guerra vietnamita. Oltre il ponte di Du
Long lo scenario sembra rarefarsi (si potrebbe dire con l'onirismo
di Stocker, che ci si addentra "dove il mondo diventa sogno
e il sogno diventa mondo"), le azioni belliche restano anonime
(la sparatoria che uccide il giovane marine negro) o anacronistiche
(la pioggia di frecce e giavellotti), sparisce la coreografia della
guerriglia e la voce recitante completa la tessitura dell'arazzo della
"recherche": il viaggio della coscienza approda alfine all'ultima
spiaggia e Willard e i due compagni sopravvissuti (i due bianchi!)
arrivano nel mostruoso "salone delle feste" di Kurtz, tra
"lampadari" umani grondanti di sangue.
«Voglio parlargli», confida l"'eroe" ad uno strampalato
fotoreporter (Dennis Hopper) che si aggira inquieto tra guerrieri
e cadaveri. «Quando gli sei di fronte é lui che parla, tu stai
ad ascoltare» gli risponde quello e aggiunge: «la sua mente
é lucida, ma la sua anima è pazza». Siamo ormai alla resa dei
conti, la guerra-spettacolo di Apocalypse
now rivela la sua essenza di guerra metafisica e l'incontro
tanto atteso col bonzo-Kurtz si concretizza nel cranio rasato (c'entra
qualcosa
Mussolini?) che luccica nell'oscurità dello schermo: Willard é approdato
all'oracolo dell'astrazione risolutiva. ll Kurtz di Coppola, nel suo
"universo farneticante", estrapola qualsiasi meccanismo
istituzionale di potere e violenza. Il Marlon Brando che declama Conrad
(«l'orrore, l'orrore») ed Eliot («noi siamo gli uomini vuoti»)
ha nel cuore il vuoto di troppo cinema hollywoodiano e, nei testi
sacri della sua "cella The Golden Bough di J. G. Frazer
e From Ritual to Romance, di Jessie L. Weston, legge la propria
angoscia di vacuo Dio della Guerra che attende la liberazione ("vecchio,
calvo, sposato, forse gravemente malato, e inattesa di un Viaggiatore
che gli darà nuova e vera vita", Weston) e la progenie ("Egli
era un sacerdote ed un assassino; e l'uomo che egli attendeva prima
o poi l'avrebbe ammazzato e avrebbe assunto il sacerdozio al suo posto.
Questa era la regola del santuario...", Frazer). Il disgustato
ed affascinato Willard non può che compiere il suo dovere.
«Sei soltanto un garzone mandato dal droghiere a fare la sua commissione»
gli ha detto Kurtz: al rituale del "popolo" che immola il
bufalo egli (cor)risponde con il rituale dell'uomo che sacrifica un
altro uomo (a chi? ad un dio di morte? alla propria vendetta? ai superiori?
al fato?) e che, rifiutando l'assunto esoterico (come avveniva nella
versione presentata a Cannes in cui Willard "succedeva"
a Kurtz), rientra nei ranghi di singolo anonimo, di "garzone",
forse pronto ad un'altra missione, certo bisognoso di un altro viaggio
nella propria coscienza. "Apocalisse come rivelazione"15 quindi, esteriore ed interiore: l'esteriorità si realizza nel
viaggio, nella truculenta descrizione dell'orrore vietnamita (indimenticabile
la scena della battaglia con gli elicotteri e del bosco distrutto
dal napalm) e negli scompensi di tutto l'ambiente (il surf, le conigliette,
il caos del ponte-limite della lucidità umana) mentre l'interiorità
"prende corpo" man mano che la figura di Kurtz-Brando prende
forma. Coppola alla "frontiera di troppo" che il governo
Usa ha esperimentato in "the Nam" sostituisce la frontiera
dell'io, oltre la quale cercare verità e morale per un mondo ed una
generazione in crisi di valori. Stilisticamente
Apocalypse now
s'incrina (ma non crolla) quando dalle turbe del conscio si passa
a quelle dell'inconscio, quando cioè dal surrealismo delle immagini
veristiche (la guerra-colossal del 70mm) si passa a concretizzare
le istanze della mente (la "stagnazione" del mostruoso regno
di Kurtz, sempre a 70 mm). Marlon-Moby Dick melvilliano quasi più
che Kurt di Conrad, dovrebbe visualizzare la tensione di un film così
pulsante di stimoli; ma anche per un attore del suo calibro l'impresa
é superiore alle forze. Nell'atmosfera mitica in cui la luce delle
fiaccole racchiude la notte cambogiana (la mano di Vittorio Storaro!),
la verbosità e l'effettismo non realizzano il "salto magico"
e si fa strada, una volta di più, l'autocontemplarsi ciclico dell'unìverso
cinematografico. Il profilo ossuto e spesso troppo spiritato di Martin
Sheen sembra stilizzare il volto enigmatico del primo Mitchum, la
tromba che sigla la carica del cap. Kilgore ha il suono antico di
quella delle giubbe blù dei western di Nelson e Penn, Dennis Hopper
ancora una volta fa da tramite (da
Easy
rider a
L'amico
americano) agli intellettualismi per la cultura di massa (e qui,
oltre il ruolo "esplicativo", il suo mestiere é quello del
reporter!), Marlon Brando infine rinnova il confronto giovanile con
Newman e come il Billy the Kid di
Furia selvaggia si staglia
sulla porta illuminata in attesa della catarsi.
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E ancora, nella cornice dei brani musicali (The End
dei Doors ritorna anche in chiusura) l'apocalisse di
Coppola si presta ad una lettura "acida":
l'incubo d'apertura di Willard non ha fine, non smette di
ossessionare. Il suo sogno orrendo continua per tutto il
film (elicotteri ed esplosioni erano e restano gli
elementi chiave), la camera di Saigon si dilata nel
sottobosco cambogiano e nell'immagine filmica, che
abbraccia gradualmente lo spettatore in un
"trip" collettivo. Apocalypse Now non
termina con l'inquadratura della motovedetta in rotta
verso casa, ma con i bagliori devastatori (il
bombardamento dei B-52 ordinato via radio) che fanno da
sfondo ai titoli di coda. É questa la vera chiusura del
film che disperde nel surreale l'esplosione
dell'avamposto della coscienza. Quasi a concludere
tragicamente il viaggio allucinato del Willard-americano
medio o forse ad ironizzare sulle sfaccettature del
cerebralismo dello stesso Coppola: più della verifica
itinerante del singolo individuo vale la forza del potere
istituzionalizzato nella violenza annullatrice del
bombardamento a tappeto... Per l'orgasmo dell'intelletto
e per l'opulenza di Hollywood.
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