La
parola videorealtà è un termine di nuova accezione,
coniato in questi anni
di tele-onniscienza in cui informazione e cultura
sono legittimati solo via etere, direzionati da un tubo catodico
e gestiti da
un telecomando. È
difficile, sull'argomento,
non cadere
nella retorica, anche perché, a
livello teorico, linguistico-sociologico, i discorsi si riciclano
da almeno un decennio. Così mi permetto un'autocitazione (Apocalisse
a 24 pollici - 19801) nel dare
per espresso ed acquisito tutto
un bagaglio di
confronti massmediali su cinema-televisione
e per riesumare il termine affine (ma vedremo
subito il sottile distinguo) di immaginario
collettivo. Se sono molti, e intuitivi, i punti di contatto
tra le due espressioni (e i relativi concetti), ciò che li distingue,
ciò che mi rende ostile il primo e fraterno
il secondo, è la sublimazione, in quest'ultimo, dell'immagine come mezzo e
fine di un percorso culturale, la sua apertura ad uno spazio
onirico che plasma il reale e rigenera il fantastico, l'indipendenza
dalle pastoie che il bisillabo
video comporta, la
puntualizzazione dell'approccio collettivo
che, nella coscienza del
sogno, non implica obbligatoriamente
di farne standard di costume, moda, business commerciale.
In questa direzione va rivista anche la
familiarità dell'utenza coi modelli massmediali.
Il prof. Costa, nel
suo intervento, ricordava come "abbiamo sempre in
mente il modello letterario". Per le
nuove generazioni l'enunciato vale certo nei confini dell'educazione
scolastica, ma nell'autoesplorazione dei messaggi
massmediali i giovani hanno
forse più in mente il
modello visivo, dell'immagine, piuttosto che quello
letterario, della pagina scritta. Un modello più forte,
più suadente, forse meno scandagliato, meno approfondito ma pregnante, più confidenziale nella sua immediatezza, nella sua intensità di
frequentazione.
Dovremo allora prepararci a distinguere, a
cavillare, a non fermarsi alla comunanza del termine lettura (ormai acquisito anche in ambito filmico), ma a soppesare con dovizia valenze e affinità di testo scritto e testo
(audio)visuale, auspicando con queste due espressioni una identificazione esaustiva delle due entità in oggetto.
Così in
questo scivolare sulla china del predominio dell'immagine permettetemi un paradosso estremo sull'elitario distacco
della forma visiva dalle
nostre capacità di possesso totale. Interviene qui la prima citazione
filmica. In
Fahrenheit 451
(Francois
Truffaut, 1966) un regime dispotico condanna i libri al rogo, ma all'estinzione delle biblioteche fa eco la nascita degli uomini-libro che memorizzano i testi salvaguardando il tramandarsi della cultura.
All'entità-biblioteca,
luogo mitico della cultura degli ultimi secoli, sta corrispondendo, in questi
anni, l'entità videoteca: ogni cinefilo, critico, o semplice appassionato
ama crearsene una propria. Ma vi siete
mai interrogati sui rimedi possibili, in questo
ambito, nel caso di
un'azione sconsiderata
paragonabile a quella di
Fahrenheit
451? Non potremmo mai impararci un
film a memoria, perché esso non è solo una
combinazione di caratteri, di parole: è qualcosa di più complesso,
che ci supera,
che ci mette in condizione di inferiorità non solo in campo
creativo (la complessità produttiva della
realizzazione di una pellicola rispetto alla scrittura di un romanzo) ma pure in quello di acquisizione,
di stabile e sicuro possesso...
Una premessa,
questa ora esposta, più
d'atmosfera che di
vera necessità per entrare nel tema del mio intervento su
Lo
schermo mutante.
Il senso di questo titolo scaturirà
dalle immagini, dai filmati
che fanno da sussidio
alla trattazione, ma è bene subito analizzare
il
termine mutante nel suo significato linguistico: nel participio presente del verbo
mutare (che muta) si può intravedere, oltre al senso più ovvio di
chi cambia se stesso, anche uno più ampio di essere che muta ciò (o
chi) lo circonda. Con mutante comprendiamo quindi
una
doppia azione, una passiva
ed una attiva.
In effetti l'attività e la
passività dello schermo come
oggetto-essere, sono concretamente mutanti davanti ai
nostri occhi: la mutazione di mentalità che il
cinema e soprattutto la televisione riescono a
produrre (fase attiva) è di
continuo al centro del disquisire
sociale, mentre rientra nel campo ristretto di semiologi e cinefili la mutazione
del tipo di percezione (ancora
fase attiva) conseguente alla diversa dimensione dello schermo che
ci sta di fronte. Già al cinema sono pochi quelli che percepiscono
la gamma di
superfici illuminate che
le varie
pellicole e i corrispondenti
mascherini ci offrono2. Nel passaggio
poi allo standard televisivo, nella media dei suoi
20-25 pollici, la mutazione (fase
passiva) è evidente
e la fruizione si stravolge del tutto (di nuovo fase attiva): il solito discorso del passaggio da una immagine
luminosa di grande formato che ci sovrasta, ci avvolge (nel buio della
sala, sacco amniotico di gestazione immaginifica
delle nostre personalità) ad uno schermo di piccolo formato che possiamo
dominare (la psicosi da
telecomando), ma che,
nonostante la possibile
disgregazione del coinvolgimento emozionale (le molteplici distrazioni
dell'ambiente domestico),
ha una straordinaria forza ipnotica che
scaturisce dalla stabilità
della sua presenza nel vivere quotidiano,
dalla premeditata ripetitività dei palinsesti3.
La nuova citazione
è allora, banalmente,
quella di Guerre stellari
(George Lucas, 1977): una cosa è vedere,
nello spazio dello schermo cinematografico,
le grandi astronavi che sfrecciano da sinistra a destra, un
conto vedere dei minuscoli oggettini che si
spostano veloci all'interno
di quel delimitato contenitore che è il
video!
Ma la mutazione
può essere anche meno filologica, più banale e
drastica. Prendete Il buono il brutto il cattivo di Sergio
Leone (1966): avete osservato il
duello finale a tre
riproposto sullo schermo tv? Nell'originale, cinemascope, Clint Eastwood è al centro, gli antagonisti (Eli Wallace e Lee Van
Cleef) sono posti ai lati dello
schermo. Nella trasmissione
televisiva compare invece solo Eastwood, unico duellante al centro della scena: nonostante le fasce nere, che delimitano in alto e in basso il quadro, la dimensione dello scope è troppo ampia, i lati estremi vengono inesorabilmente
tagliati. E nella mutazione
dello schermo4, nell'immagine defraudata della
propria personalità originaria, rientra anche la perversione
dello spot ad orario fisso5
o dei probi tagli censori. È
il caso di
Vestito
per uccidere
(Brian De Palma, 1980),
mutilato della indispensabile sequenza iniziale (la scena
della doccia che rimandava
a Psyco di Hitchcock):
certo la versione
di De Palma
giocava apertamente la carta
dell'erotismo, ma l'omissione altera tutto il meccanismo onirico di
incubi e sensualità che sorregge
il racconto. Quello trasmesso risulta, alla resa dei conti, un altro
film!
E,
ancora,
la
mutazione dello schermo, della sua essenza
di oggetto che coniuga immagini,
si dilata e si esalta proprio nel rapporto d'uso narrativo e figurativo che il
testo visuale costruisce nel confronto
cinema-televisione, nel rapportare il piccolo schermo (con le sue valenze di demiurgo della videorealtà)
con il grande schermo (con il fascino del suo riaffermato respiro onirico).
Vedremo allora come nel cinema la televisione rappresenti, venga rappresentata
quale oggetto-luogo massmediale di riferimento, di confronto, di osmosi, di
generale verifica. Osserveremo come il cinema usi la televisione e come questa
crei nuovi percorsi fantastici che cementano e rigenerano il dialogo tra i due
media.
La prima trance di citazioni è intesa quindi ad inquadrare quel processo
di revisione, di controllo, di supplenza della realtà che sta alla
base della concezione diffusa di categorie alternative tra cinema,
oggetto-luogo della fiction, e televisione, oggetto-luogo della realtà6.
In
Scarface
(Brian De Palma 1983)
il folle gangster, interpretato da Al Pacino, controlla sui monitor
dell'impianto a circuito chiuso l'evolversi del proprio potere e della
propria rovina. In Tornando
a casa (Hal Ashby, 1978) è la società americana stessa che
vive attraverso i notiziari e gli special televisivi
la cruda esperienza del Vietnam7.
Su questo standard di riproposta, più o meno
corretta, di una realtà non a portata di mano, possono innestarsi i colpi di
regia, le intuizioni d'autore, in cui la televisione non rappresenta solo
quello che la realtà è, ma anche ciò che nella realtà non possiamo ritrovare;
in cui lo schermo televisivo con le sue immagini punteggiate, striate, con la
sua definizione imprecisa ci concede distorte immagini di ciò che al di là
della nostra percezione reale, al di fuori di noi (o forse inconsciamente dentro
di noi).
Le immagini a cui far riferimento sono quelle di
Alien,
un film di fantascienza del 1979
firmato Ridley Scott: la diversità tra
ciò che vedono gli astronauti
all'esterno e le immagini riportate sugli schermi dell'astronave
(attraverso le telecamere) il segno della mediazione percettiva
che pone l'equipaggio del Nostromo di fronte
ad un'inaspettata (fanta)realtà a rischio. Quell'immagine sporca
che filtra la realtà esterna e la riporta all'interno, in un luogo
sicuro, quasi paragonabile al discorso di mediazione televisiva operata
dai network americani sul Vietnam. Anche qui la realtà esterna sembra
comprensibile, padroneggiata dalla comunità degli astronauti mentre
il mezzo di comunicazione diventa un tutt'uno con la capacità conoscitiva
dell'utente: quando il pericolo si fa strada, quando la situazione
sfugge di mano, è lo stesso strumento televisivo che va in crisi (la
trasmissione che si interrompe, il caos visivo e sonoro dei monitor),
subentra una simbiosi tra il fatto tecnico e il fattore psicologico
creato dall'ambiente...
La
simbiosi si ripresenta in un'altra situazione fantascientifica, in un altro
discorso autoriale (la regia è di Bertrand Tavernier), con
La morte in diretta
(1980): qui la simbiosi è tra telecamera e
occhio umano, quello di Roddy-Harvey Keitel, che una delicata operazione di
trapianto ha opportunamente trasformato. E la situazione è ben più concreta,
ben più reale: un altro passo nella comprensione di come la visione, attraverso
la telecamera, possa avvinghiarsi alla vita, completarsi con essa. Sulla storia
di una giovane donna (Romy Schneider) condannata da un tumore, che cede ad una
rete televisiva gli ultimi istanti della propria vita, Tavernier costruisce il
dramma di una privacy violata (l'uomo con la telecamera negli occhi
l'accompagna e la filma a sua insaputa), esibisce la cinica e splendida forza
evocativa di un reportage sublimato dalla tecnica (quello sguardo sempre acceso
sui fatti che lo circondano) ed evolve psicologie e rapporti interpersonali sul
sottile filo che lega visione esteriore e visione interiore, responsabilità di
sguardi oltre che di azioni (il
meccanismo di introspezione psicologica porterà l'individuo-telecamera alla
disperazione, all'autoaccecamento).
Con
Britannia
Hospital (Lindsay Anderson, 1982) si vuole cogliere invece un
emblematico momento sul confronto televisione-realtà, una breve sequenza che si
innesta con ironia nella globalità surreale
del racconto: c'è un cameramen (Malcom McDowell) che si dà da fare per
riprendere di nascosto i segreti di una strana clinica inglese e due tecnici gli fanno di supporto da
un'unità mobile: in realtà i due non
seguono affatto la ricezione delle trasmissione e, tra uno spinello e l'altro,
assistono beati ad un generico documentario (sull'allevamento dei polli), si
costruiscono un proprio mondo di estraniazione e divertimento (memorabile la
battuta, in puro humour britannico, "perché si chiama incubatrice? Perché
dà gli incubi, nel senso che appena nati i pulcini si domandano: non sarò mica
nato pollo?"), mentre fuori del camioncino gli eventi sociali precipitano.
Televisione come droga, esclusione dalla realtà in questo caso, ma
la lettura del mezzo può essere facilmente ribaltata.
In
Moses
Wine Detective
(Jeremy
Paul Kagan 1978) l'investigatore privato
Richard Dreyfuss, ex sessantottino, osserva, in uno studio
televisivo, alcuni filmati d'archivio sui moti studenteschi di Berkley.
Rivede l'unità sociale di quegli anni, ritrova il coinvolgimento degli
antichi ideali, lascia infine che la commozione gli inumidisca gli
occhi8:
televisione come strumento per riafferrare il passato, per vivere
la nostalgia di un ricordo, ma anche medium psicanalitico per
affrontare, analizzare la propria personalità (quella lacrima!).
Questa
sequenza fa allora da ponte con l'ulteriore gruppo di citazioni, o
meglio con l'interpretazione dell'oggetto-televisione che ne costituisce
l'analogia: il pretesto per revisionare, controllare se stessi, per
una più completa lettura della nostra e dell'altrui individualità,
cioè del reale che ci circonda. Il primo titolo è un esempio famoso,
recente,
Sesso,
bugie e videotape
(1989), opera prima di Steven Soderbergh: una giovane donna frigida
(Ann), un marito fedifrago e superficiale, un amico di
famiglia (Graham) con problemi di impotenza. In una società solo apparentemente
disinibita la videocamera fa da tramite ai difficili rapporti interpersonali,
diventa strumento taumaturgico
per superare complessi e solitudini. Questo considerare la telecamera
come un occhio confidenziale, indagatore e disponibile, cui aprirsi,
verso cui liberare la propria individualità repressa, è un perfetto
esempio dell'uso dello schermo in funzione di filtro massmediale per
una comprensione di noi stessi e degli
altri.
Questa idea originale, con cui Soderbergh sorregge qui tutta la trama
visuale, era già stata abbozzata da Lawrence Kasdan ne
Il grande freddo
(1983): Nick-William
Hurt trova una videocamera e subito se ne impossessa per un'autointervista,
per interrogare l'enigmatica Chloe (Meg Tilly) mentre esegue i propri
esercizi ginnici, per coinvolgere gli amici in questo confrontarsi
con le immagini-video. A
The Big Chill
va riconosciuto il merito di essere stata una delle prime pellicole
americane che, in un contesto più ampio, hanno tentato di dimostrare
come le persone non riescano più a comunicare tra loro, come abbiano
paura di "raccontarsi" l'un l'altro, come la televisione
sia non solo la causa di tanti silenzi interfamiliari, ma anche un
possibile escamotage per mediare i reconditi sbocchi di comunicazione.
|
E
arriviamo al primo dei tre film guida,
BLACK
COMEDY (1987) del giovane Atom Egoyan
, canadese di origine armena.
TRAMA: Il diciottenne Van, che vive
con il padre e la sua amante, è molto legato alla nonna Armen, relegata dal
padre in una degradato ospizio. Con uno stratagemma, sfruttando le coincidenze,
riesce dapprima a farla credere morta, poi a ricoverarla in un'accogliente casa
per anziani. |
Su un
canovaccio già di per sé fuori dal comune, s'innestano alcuni elementi di
grande originalità e interesse, evidenziati da alcune sequenze-chiave.
La
PRIMA SEQUENZA, costituita da una parte dei titoli di testa, mostra il
protagonista in soggettiva attraverso lo schermo televisivo della stanza in cui
la nonna ricoverata. Il suo spegnere la tv corrisponde il buio totale dello
schermo... In
Family Viewing
(il
titolo originale è molto più emblematico) la televisione, la
videoregistrazione, la visione e revisione della realtà e della sua
rappresentazione su nastro magnetico sono l'essenza stessa del vivere.
Così
nella SECONDA SEQUENZA, mentre si scopre
che Van ha una relazione con l'amante del padre, all'improvviso le
immagini appaiono accelerate e all'indietro: la scena viene rivista proprio in
modalità play-rewind di un videoregistratore, a sintetizzare la compenetrazione
tra realtà e videoreltà e ad introdurre anche lo strano vizio del padre di Van
(TERZA SEQUENZA), ossessionato dal videofilmare ogni cosa, anche le proprie
attività sessuali. Tale mania è ancora più abnorme perché l'atto della
registrazione è puramente simbolico ed effimero; "lui cancella"
commenta amaramente Van: le immagini su nastro servono solo a creare il
rapporto esistenziale tra realtà e videorealtà; poi tutto può venire distrutto,
anzi deve essere distrutto, perché le nuove immagini di videorealtà si
sovrappongano alle precedenti in un continuo rigenerarsi, perché i ricordi e il
passato non video-sopravvivano (ma in alcune vecchie cassette sottratte al
padre Van riesce a ritrovare l'immagine della madre, che poi rincontrerà nel
finale del film). Nel
concetto di integrazione, anzi di predominanza della videorealtà sul reale
rientra la QUARTA SEQUENZA: Van ha fatto credere morta la nonna scambiandole il
posto all'ospizio con la defunta signora del letto accanto. Alla nipote di
quest'ultima, assente al momento del decesso, il giovane offre, a consolazione,
le immagini del funerale come sublimazione dell'evento stesso, da poter
possedere per sempre. Infine la
QUINTA SEQUENZA in cui il padre, che cerca di
scoprire se e dove Van nasconda la nonna, sale correndo le scale di un'ala
dell'albergo dove il figlio lavora. Nello spasmo della corsa le visioni dei
suoi ricordi si propongono come immagini video (la videorealtà come essenza
della memoria). L'ultima immagine dall'esterno della camera vuota in cui giunge
è di nuovo un'immagine-video. Non solo è la visione, per noi spettatori, del
suo fallimento: ne è la catartica verifica-video, per il personaggio e per il
suo subconscio.
|
Con le
immagini di
Orwell 1984
l'ossessione
televisiva non è più un fatto privato ma un fenomeno globale, in cui il
controllo delle azioni, il plagio delle menti è la filosofia vincente di una
società massificata, ove la videodipendenza assume un significato altro da sé,
totalizzante ed opprimente per imposizione politica. Se George Orwell, nel
libro ispiratore (1948), ipotizzava tale situazione come monito
fantascientifico di un domani devasto e devastante, Sam Peckinpah (il regista
di sangue indiano famoso per la rivisitazione sanguigna e demitizzata del western)
esaspera in
OSTERMAN
WEEKEND (1983)
il tema della violenza nella società contemporanea, in un allucinante parallelo
con il cinismo e l'ambiguità del videopotere.
TRAMA: Nella casa di John Tanner, un affermato giornalista televisivo, si
ritrovano tre suoi vecchi amici: Joseph Cardone, finanziere, Richard Tremayane
(industriale della plastica) ed il produttore tv Bernard Osterman. La
rimpatriata è solo un pretesto ideato dalla CIA e dal suo agente Lawrence
Fassett che ha individuato nei tre ospiti delle spie di Omega,
un'organizzazione legata alla Russia. Tanner si reso disponibile pur di avere
come ospite della sua trasmissione Maxwell Danforth, il potente capo della CIA. In
realtà tutta l'operazione non è che un contorto meccanismo di vendetta da parte
di Fassett che ha avuto la moglie uccisa da agenti segreti sovietici. Il
weekend diventa così un epicentro di tensione, la casa lo scenario di una
violenza inaudita (dei tre solo Osterman rimane in vita) e Tanner dovrà
preoccuparsi non solo di smascherare
via etere il cinico potere di Danforth, ma pure di recuperare sua moglie
e suo figlio, rapiti dal folle Fassett. |
Al
contorto meccanismo narrativo si accompagna la lucida violenza delle immagini.
Nella
PRIMA SEQUENZA assistiamo
all'efferato assassinio della signora Fassett: le immagini sono filtrate dal
segnale televisivo, poiché sono state proprio le telecamere di controllo a
rivelare la dinamica dell'omicidio. Il mezzo televisivo fa il suo ingresso
prepotente e drammatico. È il preambolo del peso che verrà ad assumere nella
vicenda: in casa Tanner un sofisticato impianto a circuito chiuso è
direttamente collegato con gli apparecchi televisivi dell'edificio. Così ( SECONDA SEQUENZA) quando gli amici
stanno rivedendo i filmati dei loro incontri di anni prima, all'improvviso il
marchio Omega si inserisce, imprevisto e minaccioso. Di contro, capita che
mentre sul video c'è Fassett in persona che comunica con Tanner, sopraggiungano
gli altri tre: l'agente della CIA non può che improvvisare una performance come
annunciatore delle previsioni atmosferiche... È uno spaccato di ironia
all'interno di un'atmosfera di tensione in crescendo, ove il controllo video
diventa l'emblema di una realtà, privata e non, osservata e pilotata da agenti
esterni, subdolamente innestati nel vivere quotidiano. Di nuovo, attraverso i
monitor, prima il burattinaio-Fassett padroneggia l'escalation di violenza (TERZA SEQUENZA), poi Osterman e Tanner
provano ad avvertire gli amici del pericolo, assistono impotenti alla loro
morte ( QUARTA SEQUENZA). In un
finale con un ulteriore messaggio massmediale, Peckinpah mostra la preparazione
e la trasmissione dell'atteso faccia a faccia tra Tanner e il capo della CIA (QUINTA SEQUENZA). Nel momento della grande comunicazione di massa,
dell'appuntamento televisivo fondamentale (la distruzione del
personaggio-Danforth) il mezzo televisivo, mentre ribadisce il suo potere,
disvela l'ambiguita del suo essere: la trasmissione, proposta come evento in diretta, in realtà non lo è
affatto. Ed è proprio questo il trucco vincente che permette a Tanner di
trovarsi "in due posti nello stesso istante" e poter liberare così
moglie e figlio.
In
Osterman Weekend
la televisione mostra
la sua doppia faccia, il suo peso specifico nella concretezza dell'informazione
e nei rischi legati alla sua duttilità (nelle mani di chi sa manovrarla),
diventa metafora di potere, cinismo, violenza.
Alle
estreme conseguenze dell'iperrealismo sociale di Peckinpah possono far seguito
solo le escandescenze narrative e
visive della fantasy. Con
Poltergeist
(Tob Hopper, 1982) entriamo nel filone horror, in uno dei tanti prodotti di
consumo dell'industria hollywoodiana, sotto cui si celano inaspettate finezze
massmediali. Siamo in quella fascia di film americani in un periodo che
potremmo chiamare estasi della visione: protagonisti o comprimari
di tali pellicole di fantasy sono spesso colti in sguardo attonito verso gli
eventi affascinanti o terrificanti che li circondano.
E' il caso di Poltergeistquizn°95
ove tutta la famiglia americana è messa a confronto con mostri e abnormi
alterazioni del reale; in particolare la piccola Carol Anne ha uno
strano rapporto con la televisione: solo lei percepisce una
sotterranea comunicazione con "loro", gli indefiniti abitanti
dello schermo. Già l'incipit del film è ovviamente un'immagine televisiva:
l'inno americano e la bandiera a stelle e strisce che sventola vittoriosa
acquistano un ulteriore significato, così videotrasmessi. E' l'identificazione
della realtà americana con i mezzi di comunicazione di massa, un'identificazione
totale e violenta (pensiamo a
Quinto
potere
di Sidney Lumet o, più recentemente, a
Talk
Radio
di Oliver Stone).
Qui la bambina ha con
la tv un rapporto estatico, di simbiosi. Non è solo il solito rapporto
preferenziale infanzia-tv.
Se nella prima sequenza Carol Anna parla familiarmente con la tv,
nella seconda si manifestano i segni di un'ostilità recondita che
si esprime in fenomeni minacciosi. Di lì a poco lo schermo la
chiamerà dentro di sé e sarà l'inizio di una serie di avvenimenti
fantastici e mostruosi. La televisione come interfaccia
con l'impossibile, con l'irreale...
|
E così
arriviamo all'estremo, assurdo, sconvolgente
VIDEODROME (1983), terzo ed ultimo film cardine del nostro
discorso, firmato da
David Cronenberg, regista di Inseparabili
e prima ancora di
Scanners
e
La zona morta
(forse il suo
prodotto più limpido): un autore che con l'orrido, con lo strano e
l'impressionante ha un rapporto profondo e artisticamente proficuo, ma che qui
lo esalta in un parossismo angosciante, che è il premeditato sbocco di questa
relazione.
TRAMA: Sembra che da una qualche
stazione televisiva arrivi uno strano segnale, Videodrome, un programma di incredibile sadismo e violenza, ma di
altissimo audience. Max Renn, direttore di un'emittente privata, che cerca di
entrarne in possesso, si troverà coinvolto in una delirante spirale di delitti
e allucinazioni, di un mostruoso cancro videotrasmesso che provoca ripugnanti
mutazioni nei corpi degli individui, destinati, in nome della nuova carne, alla follia e alla
distruzione. |
PRIMA
SEQUENZA: E' il primo contatto di Max Renn con Videodrome: è subito chiaro il potenziale di violenza che lo
accompagna, ma è quando la videocassetta viene inserita nel videoregistratore
che le deformazioni del reale entrano in comunicazione con la dimensione
percettiva di Max (SECONDA
SEQUENZA): le rosse labbra emergono dal video, lo
schermo realizza la sua mutazione estrema... Siamo a uno spettacolo per stomaci
forti. Non è facilmente dimenticabile quella fessura, quella ferita che sia
apre nel ventre di Max, che divora la sua pistola (TERZA
SEQUENZA).
Allucinazione? Ma allora dov'è finita la pistola?! Il corpo di Max è diventato
un veicolo di forze mostruose e il loro messaggio di violenza è concretizzato
in quella videocassetta animata di vita propria, destinata ad entrare in lui
attraverso una nuova lacerazione fisica (QUARTA
SEQUENZA), attraverso la
visualizzazione di un delirante incubo massmediale: gli oggetti televisivi che
entrano nel corpo umano, l'individuo che "si apre" per essere
programmato e videoguidato. E così, nella
QUINTA
SEQUENZA, è il televisore
stesso che arma la propria mano, che si trasforma tridimensionalmente per
uccidere Max; ma nello stesso momento in cui egli viene colpito, è il suo
stesso corpo, bucato dai proiettili, che si materializza nello schermo
televisivo... Morte e resurrezione dello strumento-uomo. I bizzarri riferimenti
biblici trovano enunciazione formale ("la
videoparola che si fatta carne"),
mentre Max si dirige verso la realizzazione estrema dell'assunto: mondo reale
come emanazione ineluttabile della videorealtà. Nella
SESTA
SEQUENZA, che è la
sequenza finale, il suicidio a cui arriva Max non è che la rappresentazione,
l'immagine speculare dello stessa scena che è appena apparsa sulla
televisione-feticcio che gli sta di fronte. E' la realtà che fa seguito
all'immagine sullo schermo, non viceversa.
È la videorealtà che precede il reale.
Si
può ben dire che, come dopo il colpo di pistola che chiude
Videodrome,
davvero l'immagine non possa che oscurarsi, così anche questa relazione
non può che esaurirsi su tali allucinate immagini. Certo anche la
vostra percezione dell'immaginario oggi ha subito una lieve mutazione,
abbiamo scoperto una volta di più come il fantasticare dei concetti
e la fascinazione delle immagini modellino un immaginario collettivo
in continuo divenire. Se nel film di Cronenberg
(che continua a scorrere sul video) c'è ancora spazio per i titoli di coda, a chiusura di questo incontro spero
resti lo spazio, la provocazione per ulteriori percorsi di approfondimento9,
di mutazione culturale, fuori e dentro lo schermo.
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