Orson
Welles, Stanley Kubrick,
John Ford,
Alfred Hitchcock… Si contano su una mano
gli autori cinematografici "immortali". Ora il termine esalta
il suo valore etimologico per
Kubrick,
scomparso questa settimana, lontano dagli sguardi del mondo, così
come lo era stata la sua esistenza in questo fine secolo: reclusa tra
le mura del suo "castello" a St. Alban's, a due ore di macchina
da Londra.
Era tornato prepotentemente alle cronache, il settantenne regista newyorkese,
per la chiacchierata realizzazione dell'ultimo
Eyes
Wide Shut, ancora incompleto secondo il maniacale perfezionismo
dell'autore, ma pronto, da luglio '99 (uscita mondiale prevista), a
strapazzare i nostri tabù sessuali e le nostre remore morali,
con Tom Cruise e Nicole Kidman nei panni di una coppia, travolta nella
torbida sensualità di una trasgressiva passione erotica.
Ma il peso della presenza/assenza di Kubrick negli spazi d'informazione
è stato costante in questi dodici anni (dall'uscita dell'ultimo
Full Metal Jacket - 1987), non fosse altro che per i continui rimandi
al suo cinema in ogni ambito culturale, per la curiosità umana ed
artistica del suo esilio e dei suoi mitici progetti (A.I., sull'intelligenza
artificiale di cui, da oggi, dovremo fare definitivamente a meno), per
la forte eco massmediale della riedizione, giusto l'anno scorso, del suo
capolavoro-scandalo Arancia meccanica, riammesso oggi, di diritto,
come figura emblematica (anticipatrice non istigatrice) della perversa
estremizzazione della violenza urbana e del degrado civile.
Ma la grandezza di Kubrick non sta in una singola opera (anche se 2001:
Odissea nello spazio resta un vero monolito cinefilo di questo fine
millennio), ma nella coerenza antropomorfica del suo cinema, fatto di prototipi
d'autore, di reinvenzioni di materiali letterari (partendo da testi, spesso
"di rango", da Nobokov a Burgess, da Arthur Clarke a Steven King)
e di archetipi metalinguistici, di opere che hanno riconfigurato e detto
spesso l'ultima parola su un genere: il peplum non è più
stato lo stesso dopo Spartacus, la scansione temporale degli eventi
di Rapina a mano armata rimane un punto di riferimento per il poliziesco
(con Tarantino ultimo discepolo), l'horror-thriller ha acquistato dignità
(e profonditrà psicanalitica) con Shining, la rarefazione
della morbosa sensualità di Lolita ha retto splendidamente
il confronto letterario, la raffigurazione pittorica della società
ottocentesca ha trovato la sua perfezione in luci e ombre (non solo iconografiche)
sulla tela cinematografica di Barry Lindon. E che dire delle prese
di posizione contro la guerra dalla carneficina dei fanti di Barry Lindon
all'assurdo processo di Orizzonti di gloria, dal grottesco pamphlet
di Il dottor stranamore, alla violenza lacerante di Full Metal
Jacket?
In Kubrick ogni immagine ha valenze occlusive e debordanti, ogni suono,
musica, canzone si fa contesto essenziale, spiazzante e iperbolico: per
tutti, in 2001: Odissea nello spazio, il passaggio, contrastante
e fluido, da quell'osso-clava lanciato in aria (dal primate) all'astronave
che fluttua nello spazio, dallo Zarathustra di Richard Strauss al
Danubio blu di Johann, da fanta-preistoria a fanta-futuro…
Stanley Kubrick, fotografo-rivelazione (negli anni '40), maestro di scacchi
(la sua grande passione) e di iperrealtà filmica, ci ha condotto
con la genialità del suo cinema in percorsi esistenziali straordinari:
come bambini in triciclo tra i corridoi orrifici dell'Overlook Hotel, come
folli militaristi a cavallo di una bomba nucleare, come astronauti in un
estraniante iper-spazio metafisico, a rispecchiarci nella contemporaneità
della nostra vecchiaia e del nostro feto amniotico. Ora con la sua scomparsa,
ci ha lasciato, un incolmabile vuoto artistico e un'ulteriore domanda cinefila:
chi è adesso il più grande regista vivente?
ezio leoni -
La Difesa Del
Popolo
14
marzo 1999
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