Gravity |
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Così come non basta un insieme di eventi luttuosi, o di gag divertenti, per classificare correttamente una storia come drammatica o comica, non basta mostrare due astronauti nello spazio per fare un film di fantascienza. Gravity, ad esempio, non appartiene a questo genere: eppure la sua grandezza si definisce appunto nel sembrarlo non essendolo. La protagonista, Ryan Stone, è un ufficiale biomedico che ha perso il suo posto nel mondo, e fluttua nello spazio debolmente attaccata, letteralmente, alla Terra attraverso un cordone ombelicale umanoide. Ininfluente che questo cordone sia una persona in carne ed ossa, il suo superiore sulla navicella spaziale orbitante, Matt Kowalski: i due cercano di difendersi dalla furia generata da una nube orbitante di detriti che ha distrutto il loro shuttle, uccidendo il resto dell’equipaggio e abbassando drasticamente le possibilità di sopravvivenza, oltre che di ritorno a casa, di entrambi.
Cuaròn, assente dagli schermi da sette anni (Children
of Men), ha aperto il Festival di Venezia 2013
con un film che sfronda l’elemento umano sfidando le mode e il nostro
tempo in ogni direzione. Al posto dell’ipercinesi, la lentezza; al
posto dal chiasso e dell’accumulo, il silenzio, i rumori, il respiro.
Da un punto di vista tecnico,
Gravity
è il primo film che
cerca seriamente di dare una dimensione fisica, concreta, tattile, al
3D stereoscopico che da alcuni anni imperversa sui nostri schermi.
L’appassionante studio sull’assenza di gravità della regia si pone
innanzitutto il problema dello spazio: rallentando (giocoforza) i
gesti, Cuaròn ne amplifica (e non ne sottolinea) il significato,
donando forza ad ogni singola inquadratura, che risalta all’occhio
dello spettatore finemente cesellata da una potente fotografia, di
Emmanuel Lubezki, che sembra governare ogni singolo, microscopico
elemento sulla scena. L’uomo del XXI secolo, coccolato dalle proprie
fragili certezze, le vede crollare una dopo l’altra sotto i colpi
tangibili di un universo che si manifesta nella propria immanenza. Per
scaraventare lo spettatore nella vicenda raccontata, Cuaròn non esita
ad utilizzare il piano sequenza con una sfrontatezza guerrigliera che
ha pochi pari nella storia recente del cinema americano, favorendo
l’immediatezza della narrazione e l’identificazione con un personaggio
che ci cede immediatamente le sue insicurezze.
Gravity
è anche un film
scommessa estremo, che ci sfida con la sua vicenda in tempo reale: i
90 minuti della durata equivalgono ai 90 minuti dell’orbita della nube
di detriti distruttrice. Insomma, il cinema americano, che tante volte
si accusa di essere affetto da dipendenza dagli effetti speciali
visivi, ha imparato finalmente ad usarli per raccontare, senza un solo
secondo sprecato, la deriva di un’anima. |
Pietro Liberati - dicembre 2013 - pubblicato su MCmagazine 35 |
promo |
La dottoressa Ryan Stone (sandra Bullock) affronta il suo primo viaggio spaziale a bordo di uno Shuttle pilotato da Matt Kovalsky (George ClooneY) che, al contrario, di esperienza di volo ne ha maturata fin troppa ed è al suo ultimo viaggio prima di ritirarsi. Una missione di routine che si trasforma ben presto in un disastro: i due protagonisti, infatti, si ritrovano a fluttuare nello spazio e isolati dalla Terra, con scarse possibilità di essere salvati... Una drammatica odissea alla deriva nello spazio profondo per raccontare il viaggio della vita di ogni uomo alle prese con pericoli e avversità. Gli aneliti filosofici risultano funzionali all'azione: invece di usare il genere per approfondire le psicologie dei personaggi, Cuaron padre (regia) e figlio (co-sceneggiatura) usano le psicologie, estremamente basiche, per caricare il genere di adrenalina. Così il film viaggia fluido nello spazio, mette ansia ma al tempo stesso diverte. |