Con
Children
of men
approda a Venezia la fantascienza: raramente però siamo stati messi
di fronte ad una visione così realistica del presente. A conferma
di ciò l’eclettico regista – autore di
Y tu mama tambien
ma famoso specie per il suo
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban
– rivela che la storia lo ha colpito proprio perché permette di ragionare
sui problemi di oggi. Il film è tratto da un romanzo della scrittrice
P. D. James (sì proprio la regina del giallo inglese, "madre"
dell’ispettore Dalgliesh) che ambienta la sua storia in un non lontano
futuro (2027), in cui la razza umana è ormai in via d’estinzione,
poiché da tempo nessuna donna rimane più incinta.
Nel Children
of men di
Cuaròn siamo a solo una ventina d’anni dal presente (contro i trenta
del romanzo) ma i nodi della nostra civiltà sono arrivati al pettine:
l’invecchiamento della popolazione, il degrado ambientale, le tensioni
sociali, il problema dell’immigrazione sono bubboni ormai scoppiati.
In una Londra grigia e sporca terroristi di opposte fazioni si fronteggiano
come in un campo di battaglia, mentre immigrati provenienti da tutti
i paesi (anche quelli che oggi si sentono al sicuro) guardano atterriti
da dietro le sbarre dei lager costruiti per tenerli “ al di fuori”.
In questo scenario si muove Theo (Clive Owen), anti-eroe depresso
e statico ("Il protagonista avrebbe oggi venti anni –
dice il regista - e sarebbe forse uno di quei ragazzi che frequentano
i centri sociali; quando lo incontriamo ha ormai perso ogni illusione
e motivazione, non ha più carica e si muove solo perché spinto a farlo"),
costretto suo malgrado dalla ex moglie (Julianne Moore) a difendere
la prima donna finalmente rimasta incinta e con lei l’unica speranza
di vita del mondo.
In un quadro così
cupo e asfittico porta un po’ di vitalità e umorismo Jasper,
l’eccentrico personaggio interpretato da Michael Caine, un tempo
compagno di battaglie civili del più giovane Theo. Vecchio hippie
capellone, Jasper continua a coltivare cannabis nella casa in mezzo ai
boschi in cui si è rifugiato. A differenza di quello di Theo il suo
disincanto non è amaro: la distanza dalle contraddizioni del mondo lo
rende più acuto, ma rimane in lui una adorabile leggerezza, forse
grazie alla linfa che natura e cultura gli procurano nella sua piccola
oasi. Una leggerezza che manca del tutto a Theo.
"Non è
stato facile interpretare un personaggio così passivo – ammette
Clive Owen – sempre riluttante, eppure costretto costantemente ad
andare avanti". La costruzione del personaggio di Theo, a cui Owen
ha attivamente partecipato, va tutta in questo senso, con particolari
e scene che cercano di mantenere il protagonista in una prospettiva
umana: quella in cui realisticamente spesso si è inadeguati a fare ciò
che la situazione richiede. La sua particolare connotazione ha un
senso anche in relazione alle scelte di linguaggio operate dal
regista: esse portano a spostare l’attenzione dai personaggi e dalle
loro vicende verso lo spazio che li circonda. Se è vero che Theo è
presente in ogni scena, è anche vero che spesso è inserito nel quadro
come un elemento fra gli altri, spesso di spalle, talvolta in modo
così marginale da essere perso di vista. La camera a mano esplora la
realtà in lunghi piani-sequenza: lo spettatore si trova immerso
inaspettatamente - e non senza un brivido - nelle situazioni e nei
luoghi dei conflitti contemporanei, avvolto in immagini terribili che
ben riconosce, perché sono quelle che le televisioni del mondo ci
inviano dall’Iraq, dalla Bosnia, dalla Palestina.
Al di là della conclusione della storia, solo in parte prevedibile e
che non è il caso di anticipare, il pregio del film è forse
questo: aver ben usato la chiave della fantascienza per dare uno
sguardo ravvicinato alla tragicità del presente, che tendiamo spesso
ad eludere.