Il
primo film italiano Leone d’Oro a Venezia in 15 anni pone una serie di
interrogativi. Il primo è di carattere identitario: così come la regia
di Gianfranco Rosi descrive come lontano, dai contorni indefiniti,
poetici e misteriosi ciò che si trova nel Grande Raccordo Anulare, è
altrettanto spiazzante trovare un autore off improvvisamente sotto le
luci della ribalta. Alzando la pietra dell’indifferenza dello
spettatore medio nei confronti del cinema italiano autentico, prima
che del documentario (di qualsiasi nazionalità), sotto di essa è stato
scoperto un affascinante brulicare di vitalità autoriale che prima si
ignorava. Insomma, il cinema è davvero anche questo, e noi non lo
sapevamo? Ce lo chiediamo anche perché, mentre scriviamo,
Sacro GRA
si avvicina a totalizzare duecentomila ingressi nelle nostre sale. Ma
gli interrogativi sono anche altri: un documentario può farci vedere
ciò che passa sotto il nostro naso ogni giorno? Può scavare sotto lo
strato di ordinario in cui siamo sprofondati e colpirci al cuore?
Raccontare microstorie apparentemente insignificanti può servire a
costruire una storia che vorremmo che ci fosse raccontata, anche se
ancora non lo sappiamo? Come è possibile che un nobile decaduto e la
sua annoiata figlia, un guidatore di ambulanze, due prostitute che
vivono in roulotte, un palmologo, solo per citare alcuni personaggi
del film, diventano tasselli di un’alterità che sembra avere l’urgenza
di mostrarsi?
Mosso da sempre dalla fascinazione per luoghi e personaggi fuori
dall’ordinario come dal concepibile (i suoi film precedenti, Below Sea Level
e El Sicario
sono praticamente introvabili in Italia), Rosi ci tiene a sottolineare
che il suo film è frutto di tre anni di lavoro, ossia di una ricerca
incessante sul Raccordo che circonda la nostra Capitale. Possiamo solo
immaginare la quantità enorme di girato, di dettagli insignificanti
che asciugati, strizzati, spezzettati, contribuiscono a creare un
viaggio come questo in un altrove che ci sembra lontanissimo. Il
paragone che ci sentiremmo di fare sarebbe con Werner Herzog e il suo
Ignoto spazio profondo, eppure a Gianfranco Rosi non serve introdurre
un elemento esplicitamente fantastico (un attore, in Herzog, che
tramuta in immagini di finzione il reale che ci viene mostrato) per
rendere organico e iperrealistico, qualcosa che fondamentalmente non
lo è. Non c’è, come in Herzog, la fascinazione per la Natura come
regno del caos: a prevalere è l’elemento umano nella sua accezione di
“produzione umana”. Se il Raccordo è un prodotto dell’ingegno umano,
l’umanità rappresentata è essenzialmente produzione del Raccordo: in
questo
Sacro GRA
è davvero figlio della nostra contemporaneità, cinema che guarda
all’uomo come ad un insetto su una mappa non per studiarne il
comportamento, ma per cercare di carpire il segreto dell’ambiente in
cui si muove. Per questo Rosi non ha bisogno di cercare davvero delle
tracce narrative, quelle che forse lo spettatore medio da un
documentario si aspetta: dietro alle briciole delle storie che vediamo
c’è un mistero sospeso, che tale deve rimanere. È questo mistero che
rende
Sacro GRA
cinema potente, da non perdere.
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