C'era una volta
uno scultore di nome Pigmalione, che modellò una statua così
incredibilmente bella da innamorarsene. Tanto da implorare Afrodite di
dare vita a quella creatura inanimata per poterla sposare. La storia, resa
immortale dalle 'Metamorfosi' di Ovidio, la conosciamo tutti, anche grazie
alla rielaborazione di George Bernard Shaw. Ma oggi le cose vanno
diversamente. In tempi di realtà virtuale e intelligenza artificiale, il
mito dell'incontro con una bellezza così perfetta da sfiorare la divinità
e dunque il mistero, l'alterità più assoluta, si è ribaltato nel suo
opposto. Il massimo dello stupore, e della seduzione, non deriva più dalla
differenza, ma dall'identità. E dalla performance. L'essere ideale, in
altre parole, non è più così immensamente diverso da noi da soggiogarci,
ma così incredibilmente vicino da conquistarci proprio perché interpreta i
nostri desideri più segreti meglio e soprattutto prima di noi. Insomma è
una nostra emanazione. Un riflesso - arricchito - della nostra
personalità, capace di ammaliarci rielaborando in forma imprevedibile
tutto ciò che è già dentro di noi. Messa così la prospettiva è abbastanza
spaventosa, tanto che vedendo
Her, in italiano
Lei, si finisce per
pensare che la fiaba geniale di Spike Jonze
abbia a che vedere col mito di Narciso più che con quello di Pigmalione. O
con i meccanismi del transfert, che portano il paziente in analisi a
provare qualcosa di molto simile all'amore per il suo analista. Ma la
grandezza di
Her, ciò che lo rende
così chiaro e riconoscibile, è la sua capacità di condensare tutto questo
in una realtà molto quotidiana. La storia d'amore tra Theodore (un Joaquin
Phoenix al di là di ogni elogio) e quella voce femminile che si
autobattezza Samantha (nel doppiaggio, Micaela Ramazzotti), è perfetta
proprio perché Samantha non esiste. O almeno non ha un corpo. (...) Il
tutto in un vicino ma vago futuro pervaso di leggerezza e umorismo. Addio
scenari da incubo di tante cine-utopie. Nella Los Angeles supercool di
Jonze tutto è tenue, colorato, amichevole - e un po' vano. La vera vita
resiste da qualche parte, ma sfugge tra le dita di questa umanità
disumanizzata dalle sue stesse conquiste. Nessuno va più in auto. Nessuno
alza la voce. Nessuno è davvero felice, forse. Ma ha mille mezzi -
informatici - a disposizione per provarci. Non è fantascienza, è il nostro
presente, o una sua versione appena esagerata. Dunque ancora più chiara. E
illuminante.
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Può un
film di fantascienza essere una storia d'amore, la più innovativa,
struggente e liquida degli ultimi anni? Può un film darsi del 'Lei' ('Her')
e, insieme, dare del tu alle gioie e dolori del nostro (soprav)vivere 2.0?
Può un film, insomma, renderci partecipi e appassionati della relazione
amorosa tra un uomo e un sistema operativo, che è solo voce in uscita dal
pc o dallo smartphone? Può, a patto che a scriverlo e dirigerlo sia Spike
Jonze,
a interpretarlo Joaquin Phoenix e - nella versione originale - Scarlett
Johansson, che con quell'ugola può tutto (migliore attrice al Festival di
Roma).
Her ha vinto l'Oscar
per la migliore sceneggiatura originale, soprattutto,
Her ha l'intenzione,
l'ambizione e la capacità di riadattare il celebre memento di Marshall
McLuhan, 'il medium è il messaggio': non che sia tramontato, basti
compulsare Twitter e Facebook, ma il genietto Spike ha l'ardire di
guardare non solo all'oggi (il futuro realizzato di McLuhan), ma al
domani, meglio, il di qui a qualche ora. Ebbene, ci dice
Her, 'il medium è il
destinatario'. (...) Tutti parlano da soli, con nessuno, eccetto l'OS1, e
non che Theodore non provi a invertire la rotta: appuntamento al buio con
Olivia Wilde, che proprio da buttare non è, ma non va. C'è solo Samantha,
ma fino a quando? Altri interrogativi sono meno diegetici, ma più
ficcanti: chi conferma la liceità di una relazione virtuale, basta la
convalida sociale, come nel caso di Theodore? Ancora, questi avveniristici
'compagni di vita' sono una mera protesi del nostro Ego, ci possiamo fare
l'amore o ci masturbiamo solo? E, infine, esiste una vita vissuta e una
digitalmente esperita o coincidono? Quesiti da stroncare Bauman, da
ridurre ad archeologia sentimentale i barthesiani Frammenti amorosi,
da gettare sul nostro immediato futuro ombre in codice binario: mentre gli
Arcade Fire suonano, Spike Jonze canta un umanissimo e umanista 'De
profundis' all'amare come l'abbiamo conosciuto e lo stiamo disconoscendo.
Senza apologhi morali, senza accelerare sulla distopia, piuttosto, il
regista entra nella mente dell'uomo e nel cuore della macchina e prova a
eludere le differenze: chi amiamo quando ci innamoriamo del computer, la
nostra proiezione, la nostra disperazione o davvero amiamo un altro da
noi? Dannato Jonze, che con la sua camera unisce i puntini di quel che si
sta formando nella società per prefigurarci quel che saremo a breve:
merita tutti i nostri applausi e, se volete, esami di coscienza.
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