Occupandosi
di cinema asiatico si avverte spesso la necessità di analizzare un
regista o argomentare la critica di un film introducendo il discorso
con un lungo incipit sulla filmografia di riferimento. Doveroso, da
una parte, puntare il dito contro le mancanze della distribuzione
nostrana, ma dall'altra i seguaci del cinema d'Oriente si concedono di
gioire di fronte allo spaesamento che ancora provoca un linguaggio
cinematografico tanto diverso e complesso, nonostante sia esso stato a
più riprese violato dall'industria occidentale. Ecco, nonostante Sion
Sono abbia iniziato la sua carriera professionale negli stessi anni in
cui il cinema mondiale, quello horror in primis, era costretto a
confrontarsi con nomi come Shimizu e Nakata e la new wave giapponese,
il suo è l'ultimo in ordine di tempo a cui la critica a rivolto vera
attenzione. Troppo lontano evidentemente dai generi, ma altrettanto
incurante della politica degli autori, meno spocchiosamente disinvolto
di fronte all'ipocrisia della società contemporanea e del mainstream
cinematografico come appare invece Takashi Miike , ma certo capace di
raccontarli in maniera altrettanto folle e diversificata, e pur
rimanendo rabbiosamente disinteressato a camuffare il proprio
radicalismo, sia esso estetico o tematico. Il Signore del Caos
lo titola del resto l'ottima biografia critica uscita in Italia per
Caratteri Mobili (di Dario Tomasi e Franco Piccolo, volume
curiosamente tradotto e pubblicato in Giappone prima ancora che nel
nostro paese); un caos che non è tanto confusione e disordine, ma è
soprattutto movimento costante e pulsione vitale. La vita però spesso
si accartoccia schiacciata dalle barriere della società contemporanea:
che siano i media (Suicide Club),
la religione (Love Exposure) o la
famiglia (Cold Fish), in tutta
l'opera di Sion Sono le istituzioni sono confini, ostacoli, trappole
che la messa in scena e la grammatica cinematografica hanno il potere
di abbattere. Meglio ancora, vanno a tutti i costi adoperate per
scagliarcisi contro con la rabbiosa volontà di scardinarle. Il cinema
prima e in modo migliore di qualunque altro mezzo. Ed e proprio il
Cinema protagonista di
Why don't you play in hell?,
che racconta di un gruppo di amici alle prese con la realizzazione del
film della loro vita. Non importa se la settima arte ha dato loro più
delusioni che successi, se le hanno dedicato tutto ritrovandosi a
gestire una sala cinematografica chiusa e zero prospettive
professionali. Il nuovo progetto li costringe a fare i conti con due
bande yakuza in conflitto e loro ci si buttano a capofitto, sprezzanti
del pericolo (o dell'incertezza verso il domani, che è tema sempre di
ampio respiro nella filmografia di Sono), perché rispondono solo alla
chiamata del Dio del Cinema. In questa pellicola il caos è
definitivamente dilagante, trasborda e invade tutti i piani – scenici
e non – perchè incurante del senso dell'atto creativo di per se; è
meta-cinema che fa a brandelli (a colpi di katana, si intende) ogni
forma di teorizzazione. È il bisogno di esprimere se stessi, di
gridarsi al mondo (sia esso un piccolo nucleo o un'intera Nazione, la
Terra tutta, comunque sempre “privi di sensi”) ancora il denominatore
comune, attraverso un'opera stordente e divertentissima che rimanda ai
primi esperimenti cinematografici del regista e che perfettamente si
colloca all'interno della sua opera dopo produzioni estremamente
teoriche e sofferenti come Himizu
e The Land of Hope. Lo
caratterizza un parossismo deforme, scivoloso come il sangue e
disorientante come un grido (che affettuosamente ci riporta alla mente
Cut di Amir Naderi e
quanto “doloroso” possa essere l'amore per il cinema) – liberatorio e
crudele come l'immagine delle pizze insanguinate a film completato.
L'atto di fare cinema è un gesto anarchico e dinamico dunque, la
macchina da presa lo strumento con cui muoversi nel marasma, e la
lente che trasferisce questa rappresentazione della Babele
contemporanea all'occhio dello spettatore si rivela unico e autentico
salvagente.
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