Quella
raccontata dal cinema di Amir Naderi è un’ossessione. Anche senza aver
visto tutta la sua filmografia (sedici lungometraggi, una buona parte
girata in Iran, tre a formare una trilogia newyokese) si può far
riferimento al terzo capitolo della trilogia (Marathon
- Enigma a Manhattan) per
disvelare un immaginario (in bianco e nero) cadenzato dallo
sferragliare dell'underground, da quei quasi cento cruciverba che
devono essere risolti entro una giornata. O a quel
Vegas: Based on a
true story, presentato tre anni
fa in concorso qui a Venezia, con un cromatismo quasi sciatto,
“impolverato” quanto il suo protagonista che riduce il giardino di
casa ad un ammasso desertico nella paranoica ricerca di un improbabile
tesoro che possa ridare un equilibrio, almeno economico, alla
famiglia.
Ora con
Cut, relegato (!?) nella sezione Orizzonti, nichilismo e cinefilia si compenetrano attraverso la figura di Shuji, giovane
cineasta giapponese “duro e puro”, che vaga per la città ammonendo con
un megafono che il cinema sta morendo, che scomparirà se non saprà
riscoprire il binomio aureo arte- intrattenimento. Shuji dà il suo
contributo divulgativo organizzando sul terrazzo di casa (un’oasi per
pochi eletti incastonata nello skyline della metropoli) proiezioni di
capolavori immortali: Keaton,
Truffaut,
Cassavetes, Oshima …
Il suo agire non è solo pubblico. Lo vediamo ritualmente rendere
omaggio alle tombe di cineasti quali Ozu e Kurosawa (e in questi
frangenti la fotografia vira “ossequiosamente” al bianco e nero), ma
il suo iter autoriale cozza ben presto contro uno scoglio di
inaspettata concretezza e brutalità. Il fratello Shingo, che si era
prodigato per procurargli il denaro per realizzare i suoi film, viene
ucciso in un giro di affari sporchi interni al mondo degli yakuza e
l’insolvenza del suo debito ricade su Shuji.
La scadenza è troppo breve, l’importo per lui troppo alto… Ma le
circostanze lo portano ad una soluzione di devastante disumanità.
Shuji, proprio nei gabinetti dove il fratello ha perso la vita (il
luogo diventa simbolo di espiazione), si offre, a pagamento come
punchball umano, agli sfoghi violenti degli avventori del bar-palestra
degli yakuza. Shuji non è però un sacco inerte, il suo corpo giovane e
robusto, pur coprendosi via via di lividi sanguinolenti, si erge
provocatorio ed altero, sfida i clienti, battendo i piedi e gridando,
in una sorta di taumaturgia cinefila, i film e i nomi dei registi che
ha nel cuore.
La sua prova è estenuante ed altrettanto lo è quella dello spettatore.
I pugni che colpiscono lo stomaco e il volto di Shuji riempiono lo
schermo di un dolore fisico che diventa quasi tangibile, che si
traduce in una sofferenza indotta che cresce in intensità nella
consapevolezza del perpetuarsi della sfida. La scommessa estrema, per
accumulare in tempo la cifra necessaria, è infatti quella di arrivare
ad incassare 100 colpi consecutivi che, nell’economia del masochismo
metalinguistico di Shuji, si traducono nell’enunciazione dei 100 film
fondamentali della “sua” storia del cinema. Il piacere di sentirli, di
leggerne i titoli a schermo nero, di rinverdirne il ricordo con
qualche scena memorabile (Sentieri selvaggi ovviamente…) va di pari
passo con la sofferta attesa per una meta che sembra estenuantemente
così lontana. Quando si arriva all’ultima decina, quando alfine si
materializza la sequenza finale di
Quarto potere, la sensazione
liberatoria che
Cut trasmette allo spettatore raggiunge il suo apice.
Shuji può ora pagare il suo debito e sostenere lo sguardo degli yakuza
per farsene concedere un altro. La sua ispirazione di cineasta ha
bisogno di finanziamenti, il cinema (e questo festival) hanno proprio
bisogno di Amir Naderi.
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