Emerge
sempre un legame inequivocabile nell’opera di Amir Naderi
, nel suo
incarnare l’autore totale della propria creazione, come endemica
necessità dell’esistenza e propaggine materica dell’evoluzione della
visione soggettiva. Ogni film compone una sorta di serialità di un
sovraracconto che è prima di tutto il viaggio di una personalità
apolide e la migrazione di quello squarcio, o lacerazione, prodotta da
quegli occhi che mirano a scavare, perlustrare, toccare la densità
dello scarto del significante invisibile al visibile, in grado di
manifestarsi attraverso l’esperienza cinematografica. Diviene così,
per Naderi, profondamente rilevante la dimensione del reale, inteso
come luogo e atto occasionale in cui si ci trova ma non ci si
riconosce. Così era stato per l’Iran all’inizio, poi per New York, e
ora per Las Vegas. Un movimento continuo che è anche movimento
formale. Vita e creazione sono come vasi comunicanti: la permanenza
del regista in questa città è la storia vera del titolo, perché
attraverso di essa è stato possibile afferrare le storie che fondano
Vegas, elementi cardini di tante vite, passaggi, leggende di un mondo
che vuole nascondere contraddizioni e debolezze, ed è allo stesso
tempo produttore e consumatore di ossessione. E’ il pensiero ossessivo
- non a caso, pensando alla precedente trilogia di New York, com’è
evidente fin dai titoli,
Manhattan by numbers
(1993),
A, B, C... Manhattan
(1997) e
Marathon
(2002) - il contenuto portante del film,
l’elemento che unisce da subito la famiglia protagonista: per il padre
è impossibile tenersi lontano dalle slot machine, per la madre nulla è
più importante del proprio giardino, per il figlio dodicenne non si
preannuncia un futuro sereno. Per quanto precario, la vita di questa
famiglia ha un proprio equilibrio. Le luci degli hotel costituiscono
l’orizzonte non solo visivo degli eventi, poiché la casa della
famiglia Parker si trova nei sobborghi della capitale, là dov’è vivida
la presenza dell’attiguo deserto. E’ infatti la stessa staticità del
deserto che nutre la vita di questi personaggi, chiusi in un mutismo
rabbioso di insoddisfazione spezzato dall’arrivo di un ex marine che
propone una cifra altissima per quell’appezzamento di terreno
dall’apparente misero e anonimo valore.
Naderi
sfrutta narrativamente la casualità, lo spirito, l’impulso
desiderante, la coazione a ripetere del gioco, che è poi l’emblema
della città, ma in chiave drammaticamente divertente. Tutto nasce e
procede e (non) si conclude come una partita di texas hold’em,
attraverso piccoli e grandi bui, rilanci, bluff e la combinazione e lo
svelamento delle carte. Significativa quindi la dimensione del simbolo
e della metafora, e del tempo, che pare perdersi e sfaldarsi con il
procedere della ricerca del leggendario bottino nascosto sotto il
giardino. È in questo processo di escavazione e di ricerca di ciò che
non è visibile, e si desidera ardentemente, ma non si trova, che si
scopre il varco dello sguardo su se stessi. Chiusi nei confini del
recinto di casa, e incapaci di superarli, i coniugi si sgretolano come
la terra ai loro piedi, si uniscono ad essa diventando un tutt’uno con
la polvere, in una sorta di fuga e mascheramento della loro stessa
consapevolezza. Il loro vedere non coincide più con la realtà, non può
essere più previsto né strutturato. Al figlio, al bambino (ancora una
volta, come nel precedente Sound barrier), è affidata tutta la
speranza per il futuro, speranza di ricostruzione e superamento dei
limiti, della famiglia, della città, dell’ossessione.
Attraverso quel legame di dipendenza e sudditanza che unisce
viscosamente Amir Naderi ai suoi film, veniamo immersi nella
rappresentazione della tensione scenica prodotta dal varco generato
dalla manifestazione dell’inconscio. Per questo la povertà dei mezzi
espressivi diventa funzionale a questa dialettica: l’immagine appare
imprecisa, dissanguata, mancante di definizione, spaesante,
realistica, così come può esserlo la narrazione delle pulsioni umane.
Ma, per contro, la diegesi percorre invece una linearità classica e
consequenziale tipica del racconto tradizionale. Seguendo, in questo
senso, proprio quanto accaduto con
The Wrestler. Viene così a
configurarsi un rapporto inatteso tra due espressioni del cinema
americano moderno. Un rapporto che riecheggia il passato per
rielaborare drasticamente il presente sgranellato come sabbia del
deserto.
|