Ci
sono (ancora) film capaci di tradire le più o meno inesorabili
aspettative, o solo previsioni, o disegni anticipativi che, attraverso
una soggettiva mutevolezza, si è portati a creare in una sorta di via
di fuga dalla visione che ci (dis)attende. In questo senso lo schermo
diviene il terreno di scontro, nonché supporto immaginifico, tra la
rassicurante verifica delle previsioni desiderabili, e l’impulso di
una fantasia più recondita che conduce verso lo sconosciuto spazio
dell’imprevedibilità della scoperta.
The Wrestler
di Darren Aronofsky è, appunto, e ancora di più se visto all’interno
del concorso di Venezia 65, l’emblema della sorpresa, dell’inatteso,
dello spiazzamento. Perché, se nella limitante lettura e associazione
dei nomi (Wrestler/Rourke/Aronofsky) è sottesa l’idea di un
inquietante esperimento pseudoautobiografico, è vero che non c’è
limite all’imprevedibilità dell’infinità delle possibili varianti
della formazione della materia. E’ così dunque che viene a delinearsi
il quadro contenutistico di quest’opera, che, nel contempo, possiede
sì tutti i tratti propri dei componenti che la creano, ma li sussume
in un amalgama di estrema potenza emozionale, assieme vitale, carnale,
esiziale.
Mickey Rourke è - e in questo caso il confine connotativo di questo
verbo è davvero ambiguo nelle varianti eventuali che presenta - Randy
Robinson, anche detto l’Ariete, un professionista della lotta libera,
intesa prima di tutto come spettacolo, cioè del wrestling appunto,
tanto famoso negli Stati Uniti. Divenuto un mito negli anni Ottanta
grazie a incontri memorabili, ora Randy “The Ram” si trascina bolso e
ammaccato per le palestre della provincia, esibendosi per pochi
irriducibili fan in combattimenti ben lontani dalla gloria a cui un
campione come lui è abituato. Chiuso in un contesto spersonalizzante e
ingabbiato nella costante possibilità di un ultimo rilancio di
carriera, Randy vaga nervosamente alla ricerca di lavoro e soldi per
sopravvivere, incontri e farmaci per il fisico decadente ma ancora
speranzosamente prestante.
È evidente così, da
subito, l’elemento cardine e propulsore del desiderio, inteso come
vero e proprio impulso vitale per la sopravvivenza dell’individuo, che
innesca il meccanismo necessario al compiersi del dramma. The Ram vede
il contesto in cui si trova a vivere, la pervasione grigia che lo
circonda e il gelo che lo immobilizza, e agisce secondo il suo istinto
di lottatore, ribellandosi al degradante fallimento del suo presente.
Inanemente. Anche l’ultima sua certezza identificativa l’abbandona: il
fisico non regge più e il mito deve assumere il proprio destino. Ogni
respiro a questo punto è greve. Ogni tentativo di ricostruzione e
ricomposizione della vita ha la pesantezza dell’insuccesso. E’ la
spirale del ricordo, della memoria di quel che è stato e si è perso:
Randy è continuamente accompagnato da un fantasma, visivamente
rappresentato dallo sguardo della macchina da presa che si impone alle
spalle, p(r)e(s)sante, costante, sgranante. E’ proprio questo sguardo
che ridefinisce e modella la realtà, riempie il suo vuoto
esistenziale, la solitudine sterminata, il desiderio oramai
incolmabile di affetto, di vita, di amore per l’oggetto cercato e
perduto, che di volta in volta sarà la figlia, la spogliarellista che
comincia ad amare, la lotta, la popolarità, la forza.
Ma l’ordine della
memoria avviene solo attraverso frammenti di ricordo, ripetuti
flashback, tutti vòlti a delineare il costante bisogno dello scontro,
della ferita, della folla urlante. Perché questa è l’unica dimensione
concepibile per un lottatore, non può esistere null’altro al di fuori
di essa, ed è lì, nel ring, che si esprime e compie tutta la sua
esistenza. Il percorso di cambiamento portato dalla cedimento del
cuore è netto: non resta che accettare il fallimento della propria
vita, l’impossibilità di essere semplice o normale come gli individui
che lo circondano, l’incapacità di inserirsi nella staticità di un
contesto sociale suburbano qualsiasi. Del resto il corpo e il vólto di
Ram non hanno nulla di comune nelle loro evidenti forme alterate. Una
sorta di moderno freak, che vive dello e nello spettacolo e ha perduto
la capacità di porre confini tra finzione e realtà, vita e illusione.
In questo modo spetta allo spettatore farsi carico delle dovute
distinzioni, perché se per un verso Aronofsky procede impietoso a
rappresentare un’estetica del fallimento e di decadenza esistenziale -
perfettamente delineata dalla sintonia tra attore e personaggio e da
un’interpretazione che si potrebbe provocatoriamente definire
documentaristica - da un altro vuole smascherare il meccanismo
perverso della finzione insita nello sguardo oramai alienato del
personaggio. Attraverso i dettagli del ferimento e della devastazione
del corpo e e le mutilazioni dell’animo che porteranno la presa di
coscienza finale, si profila la consapevolezza che non c’è più dunque
scelta tra vita e morte. Non c’è liberazione, non c’è rimedio che non
passi per la pena e la lotta e tutti i rischi a essa associati.
The Wrestler
racchiude quindi un percorso viscerale compiuto su tre fronti:
personaggio, attore, autore. Perché Aronofsky da sempre abile e
propenso a proporre un cinema non convenzionale, ai limiti dello
sperimentale, giunge impensabilmente a una narrazione e messa in scena
(quasi) classica. Come se fosse necessario ribadire quella potenza del
cinema sopita negli anfratti delle tentazioni innovatrici.
Quella potenza che lega appunto il cinema alle nostre più radicate e
primordiali emozioni.
|