“Vorrei farvi
conoscere una sensazione di piacere che altrimenti non potreste
capire.
Questo è un film di samurai e terrore in grado di mostrarvi i fiori
della vita e della morte.
Semplici, radicali e bellissimi”.
Molto
più di accurate descrizioni e articolate trame, queste parole di
commento del regista di 13 Assassini, rendono conto della sinfonia
emotiva articolata nelle pieghe del nuovo e straordinario esito
figurativo dell’opera di Takashi Miike. Impossibile di certo
riassumere in poche righe la filmografia monumentale dell’autore
Giapponese: dal suo esordio dei primi anni novanta ha prodotto più di
ottanta film, sperimentando e navigando i generi - 13 Assassini
riconferma appunto questa sua peculiarità - e organizzando un impianto
stilistico unico e riconoscibile, paradossalmente, proprio per la sua
sostanziale variabilità e varietà. Questa radicale mutevolezza, - che
non significa assenza di temi, associazioni, connotazioni ricorrenti -
lo rende già da tempo, in molti ambienti, un autore di culto a livello
internazionale, anche se da sempre relegato ai margini, o meglio, al
di sotto, dei confini del cinema mainstream, sia esso quello del
circuito commerciale o quello festivaliero. Il motivo è facilmente
rintracciabile nella tendenza estrema, contraddittoria e perversa da
parte di Miike di calarsi nelle forme del genere per metterle in
discussione e miscidarle in un impasto audace e violento, da
intendersi nell’accezione più vasta possibile e con un riferimento
distintivo e screziato a tutti i colori delle virtù umane.
In
tal senso 13 Assassini rappresenta la possibilità di cogliere e
scoprire Miike per molti elementi caratterizzanti, e allo stesso
tempo, vedere in atto l’ennesima svolta del processo creativo di
designazione dei generi e diffusione della sua cultura di
appartenenza, della quale risente e, soprattutto, si fa precipuo
divulgatore. Questa volta Miike ripercorre la strada del jidaigeki -
un genere classico del cinema giapponese (diffuso soprattutto grazie
ai capolavori di Akira Kurosawa I sette samurai, La sfida del Samurai
...) che è rappresentazione storica del periodo Tokugawa (1603/1867) e
narrazione delle vicende di samurai - e sceglie di riportare sullo
schermo l’omonimo film (e primo della cosiddetta trilogia in bianco e
nero) di Eiichi Kudo 13 Assassins (Jusan-nin no shikaku, 1963). La
storia è ambientata cento anni prima bombardamenti atomici di
Hiroshima e Nagasaki: il nobile samurai Shinzaemon Shimada riceve in
segreto l’incarico di assassinare il crudele signore feudale Naritsugu
in seguito alla sua violenta ascesa al potere. Insieme a un gruppo di
abilissimi samurai, Shinzaemon progetta un’imboscata per catturare il
feudatario. Naritsugu è protetto da un letale esercito capeggiato
dallo spietato Hanbei, acerrimo nemico di Shinzaemon, e gli impavidi
samurai sanno che stanno per avventurarsi in una missione suicida.
Shinzaemon e i suoi uomini trasformano un piccolo villaggio di
montagna in una trappola mortale, ma all’arrivo di Naritsugu scoprono
che il nemico ha una superiorità numerica di quindici a uno.
L’epica battaglia dei tredici assassini rappresenta per Miike
l’occasione ideale per mettere in scena e dimostrare l’estetica del
codice: il codice di genere, teso, strutturato e fedelmente rispettato
nella sublime coesione di forme, tono e tipizzazione dei personaggi;
il codice del samurai, riproduce il nobile valore culturale di
accettazione del destino a cui si è deciso di andare incontro e il
dovere di rispettarlo con onore; il codice del cinema, infine,
rinvenibile da sempre in Miike come una sorta di rispetto del
dispositivo e dell’immaginario che gli sono precedenti, sia esso
quello della storia e degli autori, oppure quello della sua visione
scardinante, critica, razionale e sempre sottesa a una logica di
redenzione dei più deboli o sottomessi.
Il film ha una composizione aulica nel rigoroso percorso che conduce
alla morte ed è costruito seguendo il tratteggio di un costante
rapporto di simmetria che si sviluppa su più livelli. In questo modo
Miike si cimenta con la fedeltà del remake dell’originale di Kudo, e
riflette e fronteggia due schieramenti che riassumono in definitiva
due diverse posizioni politiche, morali e generazionali. Una
dialettica allievo-maestro che affonda le radici nella cultura
nipponica e tesaurizza tutto il suo valore formativo: memorabile la
raffigurazione nella battaglia della morte correlata dell’implacabile
samurai e del suo giovane allievo e il duello finale che è allo stesso
tempo scontro tra due modi di intendere l’onorabilità del codice. Da
una parte, la giustizia e il potere inteso come
emanazione della volontà del popolo (Shinzaemon), dall’altra la
fedeltà assoluta al volere del padrone e il dovere di rispettarla
anche se contro i propri valori (Hanbei). Infine Naritsugu incarna il
potere degradato, corrotto e abietto contro la compostezza
irreprensibile delle norme del samurai. E non può essere un caso
nemmeno la descrizione delle datazione degli eventi che rimanda alla
tragedia dell’atomica e precede di poco la restaurazione Meiji, eventi
che comporteranno entrambi cambiamenti epocali.
A ben guardare solo il numero dispari del titolo sembra fuoriuscire da
una logica simmetrica. Ed è proprio quell’uomo in più (13 assassini,
infatti, ma 12 i samurai), immortale, fantasma, tanuki (creatura
mitologica giapponese) forse, che permette a Miike di operare
direttamente un critica al modello a cui ha decido di aderire e di
imprimere il personale lascito poetico: “il personaggio rispecchia uno
stile di vita indipendente e libero, estraneo alle convenzioni
sociali. Più che a un uomo potrebbe assomigliare a un animale, che
agisce seguendo il proprio istinto senza preoccuparsi della convivenza
con gli altri membri del gruppo, e neanche delle rigide regole di
comportamento del Giappone dell'epoca”.
Per Miike il cinema è uno strumento di piacere. E in ogni suo film ci
racconta la scoperta di un nuovo ed edenico godimento.
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