La
follia umana al lavoro: ancora una volta lo sguardo di Sion Sono
In Cold Fish si rinnova tutta la matura poetica dell’autore nipponico che non manca di abbagliare ad ogni apparizione per l’insana lucidità con la quale porta allo scoperto l’essenza di un malessere della vita endemico e incontrallabile e, in definitiva, necessario ai fini di una sopravvivenza per certi versi più appagante. Il serial killer Murata, assieme alla moglie, uccide sottoposto ad un impulso fagocitante, a tratti giocoso e blasfemo al tempo stesso (la casa dove si consuma la liturgia dello smembramento dei corpi e la conseguente profusione di sangue che sembra irrorare di una benefica eccitazione i due assassini è invasa da simboli religiosi tra i più diversi e ricercati) che rimanda nel complesso ad una sorta di famelica nutrizione vampiresca e ad un agire indispensabile e connaturato. In tal senso sembrano calzare a pennello le parole della vampira Casanova in The Addiction di Abel Ferrara: “Noi non siamo cattivi a causa del male che facciamo, ma facciamo del male perché siamo cattivi”. Il male di cui si fa esecutore Murata non è altro che l’espressione di un carattere che in fondo identifica ogni essere umano e aspetta di deflagrare nel momento in cui viene meno la sopportazione dei rigidi cardini su cui vivifica l’unità familiare. La straordinaria potenza di Sion Sono è proprio nel non limitarsi mai a intraprendere un’unica via nonostante la linearità di un tratto che per esemplificazione e provocazione estetica prende le mosse dalla concretezza inoppugnabile del documentario (non si può fare a meno di notare la precisione cronologica con la quale viene mostrata di volta in volta l’incedere verso il baratro infernale e il gusto calligrafico ma non compiaciuto con il quale viene sottoposto all’attenzione dello sguardo l’annientamento e la possessione - duplice faccia del desiderio e della scissione - dei corpi) di certo poi debitamente sminuzzato sotto le affilate lame di una libertaria e coraggiosissima autonomia espressiva che manca di destituire di qualunque status precostituito le placide organizzazioni del compatto nucleo borghese. La demolizione cinica dei rapporti familiari, passa attraverso ad una esasperazione della sessualità negletta e pervicace, simbolo della frustrazione al quale ogni individuo di questo teatro grandguignolesco è sottoposto. E soprattutto, l’identità individuale in Cold Fish è rappresentata dal potere di fascinazione che l’immagine di sé riflessa nello specchio esercita nella costituzione del soggetto frammentato e ambiguamente scisso: Shamoto, al di qua dello specchio si trova in una condizione di disagio e prostrazione, al di là vede Murata, un tutt'uno idealizzato di cui può essere e sentirsi padrone. Come ben sa Sono, solo il riconoscimento di sé produrrà un primo importante cambiamento. E tutto, in questo film, è immobile e destinato a una trasformazione.
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Alessandro Tognolo - MCmagazine 29 - ottobre 2010 |