Da
una decina di anni le serie televisive americane, ma anche
inglesi e, in qualche raro caso italiane (vedi Romanzo
criminale) hanno visto una straordinaria fioritura, che, per
la qualità dei prodotti, ha attirato l’attenzione, oltre che
di sempre più numerosi spettatori, anche di critici, non
solo televisivi, che nelle riviste specializzate dedicano
ormai un certo spazio a questo tipo di produzione.
Secondo Aldo Grasso i serial televisivi sarebbero i veri
eredi della grande narrazione ottocentesca, dei romanzi
fiume di Dickens, di Balzac, ma anche di E. Sue o di C.
Invernizio, che venivano pubblicati a puntate in fascicoli
attesi con ansia dai loro numerosi lettori.
Se si colloca il salto
di qualità a cavallo del nuovo millennio con l’uscita di
CSI
(creato nel 2000 da
A. Zuicker), di Alias
(creato nel 2001 da J. J. Abrams) e di 24
(creato nel 2001
da R. Cochran e J. Surnow), nell’arco di questo decennio il
genere, che ha sfornato serie di culto, come
I Soprano,
Lost, Mad Man,
ha via via perfezionato e sviluppato i propri codici linguistici,
per cui la sua analisi richiede strumenti nuovi o perlomeno
rinnovati rispetto al linguaggio cinematografico, con cui
ha sicuramente molti elementi in comune, ma da cui si discosta
palesemente sia per quanto riguarda la fruizione che per quanto
attiene al concetto di autorialità e ai modi della rappresentazione.
Sintetizzando al massimo questi aspetti, basti pensare che
nel serial non c’è un unico regista: c’è un ideatore, che
spesso firma il pilot e qualche puntata e poi si avvicendano
regie diverse. Tra l’altro il creatore della serie viene per
lo più dal mondo televisivo, o da quello del cinema, ma può
anche appartenere ad ambiti diversi, ad esempio quello letterario,
come nel caso di Elmore Leonard, creatore di Justified.
L’ambiguo concetto di “autorialità”, che la teoria cinematografica
ha sempre cercato di definire, viene messo in crisi dall’estetica
delle serie televisive, dove si può soltanto parlare di istanza
creativa, intesa come logica che presiede alla configurazione
dei molteplici modelli espressivi. I due poli della narrazione:
Autore – Spettatore vanno dunque ridefiniti rispetto al cinema.
Per quanto riguarda i modi della rappresentazione, l’aspetto
più evidente è quello che concerne la costruzione spazio-temporale.
Per citare Enrico Terrone (Il tempo delle serie, in
Segnocinema n. 130) “La differenza principale tra una serie
e un film è che una serie ha più tempo e meno spazio. Più
tempo perché composta da una successione discontinua e potenzialmente
illimitata di episodi, meno spazio perché limitata dalla dimensioni
ridotte dello schermo televisivo. La narrazione seriale deve
dunque compensare il deficit spaziale ricorrendo ad un surplus
temporale. Fare spazio con il tempo, cercare nella durata
ciò che difetta nell’estensione. Sia le serie sia il film
creano un mondo possibile, uno spazio-tempo immaginario. Ma
il cinema costruisce il proprio campo narrativo a partire
dall’organizzazione dello spazio, mentre la serie ha come
materia prima il tempo. La centralità della messa in scena,
che caratterizza la scrittura cinematografica, nella narrazione
televisiva si piega alla supremazia della messa in serie.”
Un’eccezione a questa regola è rappresentata da
Il trono di spade,
la cui drammaturgia sembra partire proprio
dall’organizzazione dello spazio
filmico, come evidenziato anche dalla bellissima sigla, uno
spazio fortemente connotato, tanto da “bucare” i confini
angusti dello schermo
televisivo. Serie “regina”
dell’ultima stagione, Il trono di spade, è arrivata
alla terza fase senza alcun cedimento di stile, ma anzi
rafforzando il suo grande impatto visivo.
Games of Thrones,
questo è il titolo originale, prodotta dalla HBO, è frutto
dell’adattamento della saga letteraria A song of Ice
and Fire di George R. R. Martin realizzato da un
eccellente sceneggiatore hollywoodiano David Benioff (La
25 ora, Troy) e da un
romanziere di genere D. B. Weiss, con la consulenza dello
scrittore titolare. La struttura narrativa è quella della
narrazione corale, le azioni si svolgono in un mondo di
fantasia (ma con molti richiami alla tradizione mitologica,
storica e delle saghe nordiche).
Semplificando
al massimo la trama, peraltro molto complessa, si può
parlare del racconto di un’unità imperiale, quella dei Sette
Regni, che si
disgrega a causa di trame di corte e di pressioni
autonomiste e separatiste (l’immagine di apertura di una
lupa che muore lasciando soli i suoi lupacchiotti ha in tal
senso una forte connotazione simbolica). Mentre si accende
la lotta per la successione, alle loro frontiere i Sette
Regni sono minacciati dalla possibile invasione dei
guerrieri Dothraki (guidati dall’ultima erede dei sovrani
spodestati, i Targaryen) e dalle incursioni delle misteriose
creature provenienti dai territori oltre la Barriera.
Apparentemente la saga appartiene al genere fantasy e
ci introduce in un mondo misterioso, oscuro, terrificante,
dove nobili, cavalieri, dame, nani, eunuchi, assieme a lupi,
corvi e draghi, lottano per la conquista dell’agognato Trono
di Spade, forgiato con tutte la lame che sono state spezzate
per conquistarlo. Siamo in una terra scontornata, fuori da
ogni contesto geografico, dove “le estati possono durare
decenni e gli inverni un’intera vita”. Il conflitto oppone
principalmente tre casati: gli Stark (bruni), i Lannister
(biondi) e i Targaryen (albini). La gran
quantità di
personaggi (circa una trentina) non significa
però che essi siano incastonati nel tradizionale schema del
bene contro il male, in quanto il loro carattere viene via
via definito secondo i criteri della drammaturgia di
tradizione anglosassone, nelle componenti di fatal flow
(la debolezza, la mancanza), di need (il bisogno
morale) e di desire (l’obiettivo), con molteplici e
problematiche sfumature.
E questo è sicuramente uno dei pregi della serie assieme a
quello che riguarda la costruzione dello spazio. Tutto
questo brulicante mondo narrativo infatti non svilupperebbe
appieno il proprio potenziale senza una messa in scena di
alto livello. La fortissima credibilità della serie si deve
in massima parte alla scelta e all’uso di location reali,
che hanno il potere di costruire un vero mondo, di
fortissimo impatto visivo, basti pensare agli scenari di
ghiaccio della Barriera. Il punto di forza dell’apparato
scenografico sta inoltre nella connessione tra interni ed
esterni, in cui non si coglie alcuna discontinuità, come
avviene invece in molto cinema fantasy.
È una serie assolutamente consigliabile a chi ama
abbandonarsi al piacere della narrazione pura e, al di là di
tutte le possibili letture metaforiche, che si possono
trovare,
Il Trono di Spade,
per dirla con Aldo Grasso, “va visto, punto e basta”.
Un’altra serie che si è imposta all’interesse del pubblico,
con un riconoscimento spesso entusiastico da parte
dell’opinione pubblica, è la pluripremiata
Homeland, di cui
è prevista per l’autunno la terza stagione.
Il soggetto originale deriva da una serie israeliana Hatufim
, creata da Gideon Raff, al quale la Fox ha affidato
l’adattamento americano, affiancandogli due sceneggiatori
provenienti da 24: Howard Gordon e Alex Gansa.
Vi si racconta il ritorno in patria di un soldato americano,
Nicholas Brody, tenuto prigioniero per otto anni dai
terroristi islamici e sospettato da un’agente della CIA,
Carrie Mathison, di essere diventato a sua volta un
terrorista.
La serie condivide con 24 alcuni temi come quello della
lotta al terrorismo, della paranoia post 11 Settembre, della
dicotomia pubblico – privato, dei limiti della liceità
dell’uso della violenza.
Tuttavia se ne differenzia per alcuni aspetti fondamentali:
innanzitutto la scelta di una protagonista femminile, che
rivela la sua forza a partire da alcuni tratti di evidente
fragilità e vulnerabilità, che la avvicinano non tanto a
Jack Bauer, quanto alla protagonista di
Zero Dark Thirty.
Ma la vera novità è rappresentata dal personaggio del
soldato Brody, il reduce accolto come un eroe, ma che invece
è passato dalla parte dei terroristi. Raramente nel cinema e
nella televisione americana è stato affidato il ruolo di
protagonista (non di semplice antagonista) ad un personaggio
così ambiguo, controverso, non facilmente inquadrabile
politicamente.
Sul filo dell’ambiguità si sviluppa anche il rapporto tra i
due personaggi, uniti da un duplice legame: da un lato il
conflitto politico spionistico che li vede nelle parti di
cacciatore e preda, dall’altro l’attrazione erotica, senza
che mai una delle due dimensioni prevalga sull’altra. La
seduzione in certi momenti sembra soltanto un’arma come
un’altra nel gioco delle spie, mentre in altri appare come
una forza travolgente, capace di far vacillare il sistema
consolidato di valori.
Le performance notevoli dei due attori, Claire Danes e
Damian Lewis, l’una più sofferta e intensa, l’altro più
contenuto ed enigmatico contribuiscono a rendere credibile
il doppio legame tra l’eroina e il traditore.
Un montaggio alternato ora parallelo ora convergente segue
le avventure dell’agente della CIA e del soldato sullo
sfondo della vita politica, diplomatica e militare di
Washington D.C. Attorno a loro si muove tutta una serie di
personaggi minori, sui quali gli sceneggiatori hanno
sviluppato dei plot secondari, i cui esiti sono però
sicuramente meno convincenti, in particolare quello che
riguarda il rapporto di Brody con la moglie e quello
incentrato sulla figura, veramente insopportabile, della
figlia Dana.
Il limite della serie è il non riuscire a imporsi, a
differenza di Mad Men, de Il trono di spade o di
The walking Dead, come un grande racconto corale.
La più “cinematografica” delle serie dell’ultima stagione è
The Walking Dead, tratta dall’omonimo fumetto di Robert
Kirkman e adattata da Frank Darabont, uno dei più
interessanti registi del cinema hollywoodiano (Le ali della
libertà,
Il miglio verde) con la collaborazione dello stesso
Kirkman. Anch’essa, arrivata alla terza stagione, è
diventata un fenomeno di culto e si è guadagnata vari premi
di categoria.
Il tema è quello dei sopravissuti ad un evento catastrofico,
che ha popolato il mondo di zombie, la serie racconta le
loro avventure nel tentativo di difendersi non solo dai
morti viventi, ma anche dagli altri umani, spesso più
pericolosi degli zombie. Il protagonista è un ex poliziotto,
che, ritrovata la sua famiglia, si mette in viaggio assieme
ad un gruppo di altri sopravissuti, alla ricerca di un luogo
dove sia possibile vivere. Il gruppo dei fuggitivi muta nel
corso del tempo, arricchendosi di nuovi plot, che
contribuiscono a complicare i rapporti interpersonali
all’interno del gruppo.
Pur rimanendo fortemente all’interno degli stereotipi del
genere (i riferimenti a
Romero sono diffusi così come quelli
spielberghiani della famigliola sola contro tutti), la serie
presenta degli aspetti interessanti e soprattutto sa
mantenere un ritmo di suspence costante, grazie ai continui
colpi di scena.
Uno dei pregi riguarda l’approfondimento dei personaggi,
secondo lo schema della persona normale calata in una
situazione eccezionale, le reazioni sono le più svariate, il
percorso dei personaggi è talvolta violento e irrisolto,
quindi la cifra emotiva è molto varia e non incentrata sulla
sola nostalgia di un passato armonioso, basti pensare alla
complessità di personaggi come Andrea o Shane.
L’impianto visivo è fortemente cinematografico, con scene di
massa di complessa costruzione; c’è una grande attenzione
alla composizione dell’inquadratura e anche la recitazione è
molto cinematografica, ma in uno stile secco, deciso, che fa
pensare più che a
Spielberg a Carpenter.
Assolutamente consigliabile agli amanti del genere.
Cristina Menegolli |