Alla luce dei fatti attuali possiamo considerare il 1977
come un anno chiave del nuovo cinema comico americano: Woody Allen si sta
sempre più invischiando tra i suoi rovelli esistenzial-amorosi (Io
eAnnie), Mel Brooks perde "voltaggio" in Alta Tensione
(ed il bravo Gene Wilder ha preso il treno dell'indipendenza - Wagons-lits
con omicidi, Arthur Hiller 1976 - confrontandosi con l'irrefrenabilità
nera di Rychard Pryor) mentre esce sugli schermi USA (non sui nostri purtroppo,
quindi lavoriamo a scatola chiusa) The Kentucky
Fried Movie.
Perché considerare allora fondamentale un film non visto, non famoso
e, per sentito dire, neanche troppo bello? Perché al banco di lavoro
di quella pellicola stanno quattro nomi, David Zucker, Jim Abrahams, Jerry
Zucker (soggetto e sceneggiatura) e John Landis (regia) che oggi come oggi
dicono tutto delle tendenze e della portata della vis comica yankee. Proprio
l'anno scorso sono usciti due prodotti di grande successo quali L'aereo
più pazzo del mondo e The Blues Brothers che recano la
firma, rispettivamente, del "trittico" autore del soggetto e
del regista di quell'ormai lontano The Kentucky Fried Movie. Ormai
lontano si può ben dire poiché dal '77 ad oggi altre due
tappe hanno segnato roboantemente il cammino del "catacomico":
Animal House (1978), ancora per la regia di Landis, e 1941 Allarme
a Hollywood (1979) di Steven Spielberg. A questo punto, con queste
cinque "carte" in mano, é opportuno fare le dovute considerazioni
sui legami che saldano tra loro queste opere. e sulle caratteristiche del
"nuovo" genere umoristico
1.
Eliminato subito in fase critica il fantomatico "trampolino"
The Kentucky Fried Movie, (National Lampoon's)
Animal House
2
si
presenta come qualcosa di assolutamente travolgente ed inaspettato. La
comicità "fisica" o semplicemente "di movimento"
era un'entità a cui l'intellettuale Allen ci aveva disabituati:
per citare a freddo, mi sovvengono con simpatia solo la sequenza della
scala a pioli ne Il dormiglione (1973) e l'impaccio col long-playing
in Provaci ancora Sam (1972). Ed anche Mel Brooks, molto più
pacchiano, non aveva fatto cose grandi e nuove tali da essere ricordate
(a pane la "capocciata mostruosa" di sua moglie Anne Bancroft
nel flamenco di L'ultima follia di Mel Brooks (1976); meglio piuttosto
la rivisitazione classica di Bogdanovich in Ma papà ti manda
sola? (1972), ma era sempre tutto molto "soft", elegantino
ed accondiscendente, per farci ridere nella bambagia della celluloide tradizionale.
Con Animal House siamo in tutt'altra atmosfera: é un umorismo
goliardico, sboccato e fracassone che si fa largo nel perbenismo inconscio
(!?) del sorriso americano. La Delta House (la vicenda é animata,
in un college del '62, tra gli
scontri tra due clan rivali: quello degli Omega, compassati "borghesi",
e quello dei Delta, appunto, cialtroni e "casinari") é
una fornace di individui tanto volgari e dissennati nel contesto filmico
quanto simpatici e "buoni" nel rapporto confidenziale tra
schermo e spettatore: Otter (Tim Matheson), insaziabile dongiovanni
(arriva ad adescare la moglie del rettore, tra i cetrioli del supermercato),
i pivelli Kent e Larry e il veterano Hoover, la moto di D-Day (con lui
sopra), Boon e Katy (Peter Riegert e Karen Allen), coppia romantica
quanto instabile, e poi "lui"
l'oscenità fatta persona, l'animaloide cinematografico, il grasso
e sozzo Bluto.
Bluto-John
Belushi é in effetti il punto focale, e ridondante, di questa vena
cinematografica che stiamo prendendo in considerazione (lo ritroviamo pure
in 1941 e in The Blues Brothers): il suo aspetto (tozzo e
trasandato), il suo essere (rozzo e quasi depravato), il suo agire (convulso
e inconcludente) sono il massimo dello sberleffo morale e culturale all'America
istituzionalizzata dei grandi idealismi storici e dei roventi scotti sociali.
Belushi si dedica ai suoi moti fisiologici con tutta la volgarità
possibile, ingurgita rumorosamente vassoiate di budini, sandwich e hotdog
(poi si preme le guance e fa l'imitazione di un foruncolo!), osserva bramosamente
le ragazze mentre si spogliano nelle loro camere, trangugia coca cola col
mozzicone di sigaro sempre in bocca, sbava, orina pubblicamente, si gratta
con tutta l'impudicizia visualizzabile.
«ln un organismo sociale che, per riaffermare la propria validità,
rintraccia i propri simboli di sicurezza e benessere nella continuità
con anni antecedenti all'esplosione del dissenso, può essere
una scelta dinamica quella di andare a recuperare atteggiamenti e tendenze
che, in quei medesimi anni, connotavano le sole eccezioni tollerabili
alla regola comportamentale, vita di college, scherzacci, sberleffi,
volgarità, oltraggi alla "pruderie" benpensante»
scrive Emanuela Martini in Cineforum
3;
ma la «cinica autoconsapevolezza» del gioco paradossale
non si esaurisce nella "cagnara" dissacrante e molesta. Il
finale di Animal House spezza ridendo (fragorosamente), per non
piangere (disperatamente), simboli di speranza propri della generazione
in oggetto ed il fermo delle immagini con didascalie che chiude il tutto
va più in là dell'ironia sul "best-seen"
American Graffiti.
Non c'è solo la critica al sistema "altrui" (gli Usa
della Casa Bianca e del progresso liberal-conservatore), ma anche, sono
la scorza baldanzosa, al proprio "fallimento": Otis che finisce
a fare il ginecologo è un segno ambiguo per la sua maturità
sessuale oltre che per la rispettabilità della classe medica;
il divorzio precoce di Boon e Katy ha tutta l'amarezza di un panorama
sentimentale assai meno beato delle fughe in autobus sessantottesche
(Il laureato, Mike
Nichols 1967) e un Bluto che diventa senatore vuole essere una presa
in giro della serietà professionale nello stato burocratico o
dello "squallido" inquadramento borghese anche delle personalità
più "pimpanti" della gioventù alternativa?
E questo caustico velo contenutistico ricopre pure,
con maggiore scaltrezza mimetica,
1941
Allarme a Hollywood: se la tecnica e la
citazione 4 prendono
nella media il sopravvento, in ogni caso la demenzialità vorticosa
della sceneggiatura e della regia riescono sempre a ferire la tracotanza
nefasta degli scontri bellici (il nucleo narrativo vede una cittadina della
costa californiana cadere in preda al panico per lo strampalato attacco
di un sottomarino giapponese che si è "perso" nell'oceano
Pacifico). Cosi Dumbo appare certo più saggio del generale, impersonato
da Robert Stack, il caos aereo dell'equipaggio erotico (il duo Tim Matheson-Nancy
Allen) meno pericoloso di quello eroico-ammazzacattivi di Wild Bill Kelso
(Belushi), le esaltazioni del giapponese Toshiro Mifune non più
ridicole di quelle dell'invasato yankee Warren Oates, il ritmo della dancing-room,
tra balli e scazzottature, sfiancante quanto una qualche azione di fanteria,
l'eccesso di autodifesa (e di dabbenaggine) più devastante delle
cannonate avversarie. Per non parlare dell'identificazione sboccata tra
Hollywood e la bagnante nuda (Spielberg arriva ad autocitare il suo Lo
squalo del 1975) e dell'assoggettarsi delle conoscenze nautiche nemiche
alle ostinazioni renali del para-eroe texano.
A questo punto non c'è molto più da dire
per i due film rimasti, anche perché
L'aereo più pazzo del mondo
é
di un livello molto più basso, più ridicolo e raffazzonato
che altro (un aereo con equipaggio intossicato dal pesce riesce fortunosamente
ad atterrare dopo aver parodiato Ora zero
di Barflett e tutta la serie degli Airport dal 70 ad oggi, innaffiando
ogni cosa con squarci rosa e "nonsense" fiacchi ma ben vendibili),
mentre The
Blues Brothers è ben di più
che un semplice film catacomico (quindi esula da questa trattazione)
e dispiega una nuova visione stilistica anche del musical. I
fratelli Blues (John Belushi e Dan Aykroyd, anche sceneggiatore, con
Landis), impeccabili nei loro trasandati vestiti neri quizn°3,
tentano di ricostituire il loro gruppo musicale e di ritrovare le vibrazioni
sonore del "buon vecchio blues", quasi come i. cavalieri della
Tavola rotonda ricercavano il loro sacro Graal. L'illuminazione "messianica"
d'apertura é un segno fin troppo scontato. I due riescono a superare
difficoltà e intralci, persino le armi spaziali della fidanzata
di Belushi - Carrie Fisher, ex principessa Leila di Guerre
Stellari - simbolico intoppo sentimentale e mass-mediologico
5
e a "risuonare il blues"; ultima spiaggia di un mercato musicale
in crisi e quindi nuova merce: azzeccata per un pubblico dall'inebriamento
facile, ma pure vitalizzante rintocco di una cultura emarginata (l'ultima
performance sarà, a suggello, nel carcere) e riscoperta di una
tradizione non solo musicale ma anche di valori umani e sociali (non
importa per ora quali, non importa per ora come - il blues, da sempre
ha un suo substrato ben valido) con cui rimpolpare il vuoto esistenziale
del post-Vietnam, del post-Watergate, del post-Travolta, per affrontare
con la demenzialità schermica del tecnicismo ludico la demenzialità
civica del pacifismo neutronico.
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