Minority Report
Steven Spielberg
- USA 2002 - 2h 31'

 
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     Forse è riduttivo interpretare A.I.-Intelligenza artificiale come preparatorio a Minority Report, certo è che le atmosfere del nuovo, splendido film di Steven Spielberg ne richiamano la cupa ambientazione futuristica, ne esaltano l’incombente disumanizzazione, portano a compimento un percorso, amaro, sul domani prossimo venturo. Qual è allora la carta vincente di Minority Report rispetto ad A.I.? Innanzi tutto l’affrancamento dalla sudditanza autoriale rispetto ad un progetto firmato Kubrick. Per riportarne su pellicola la complessità dello sguardo e la disincantata lettura del progresso, Spielberg aveva in parte violentato il proprio spirito, propenso all’azione e all’avventura, ad un’adolescenzialità cinematografica compromessa (americanamente) con l’ottimismo e l’utopia. Qui invece, libero di essere se stesso (e maturato dall’esperienza precedente), Spielberg non ha remore nel manomettere al bisogno la struttura narrativa di Dick, ma sa coglierne e rivitalizzarne l’essenza. La pregnanza diegetica (e morale) della letteratura di Philip K. Dick è una garanzia fondamentale per la riuscita di Minority Report, l’estro del film-maker Spielberg contribuisce a costruire un’opera che è tanto inebriante nell’intreccio quanto nella forza visionaria delle immagini.
Ci sono storie “intriganti” che già a priori stimolano le aspettative: quella di John Anderton, che nel 2054 riveste i panni di agente speciale investigativo con il compito di arrestare i criminali in procinto di compiere un delitto, ha la pregnanza del monito civile e la suggestione del thriller di classe.

 

 

 Le premonizioni di alcuni sensitivi (pre-cogs) fanno da supporto alle indagini di Anderton, ma proprio dalle loro tormentate visioni esce una scioccante preveggenza che inchioda l’investigatore stesso come prossimo omicida. Il suo viatico alla ricerca della propria innocenza (non solo della “prova”, ma della “alterazione” di un futuro già scritto) costituisce l’avvincente corpo narrativo di Minority Report, ma al di là della originalità della trama, ciò che segna profondamente l’emozione sono gli echi di una riflessione (esistenziale e sociologica) che, attraverso il dramma di Anderton (un azzeccatissimo Tom Cruise), invadono le nostre coscienze: l’aberrazione di una giustizia a priori affidata ai pochi eletti, le vessazioni sui pre-cogs stessi isolati dal mondo e sottratti all’umanità del reale, l’implicita negazione libertaria che scaturisce da una prevenzione a rischio di totalitarismo, il ruolo non trascurabile dei “rapporti di minoranza” (e non solo nei verdetti dell’unità pre-crimine!), non ultimi, nella sorpresa finale del “giallo”, l’ambizione e il cinismo che la manipolazione tecnologica futuribile rischia di avallare.
A plasmare il tutto l’affascinante iper-visionarietà di Spielberg: il frenetico agitarsi della mani di Anderton che manipola le immagini scaturite dalle menti dei pre-cogs, la luminosità amniotica che avvolge il loro letargo popolato di incubi, l’irruzione dei ragni metallici brulicanti come sul monitor di un videogame, i distributori monodose di droga “insopprimibili” per fronteggiare l’asma del vivere, la visualizzazione dei ricordi concretizzata nelle schede-video riprodotte in maxi-ologrammi, gli schermi identificatori che accolgono i clienti nel supermercato dell’opulenza, il formicaio pluridirezionale in cui s’incanala il traffico, la personificazione a testimone oculare di un grande cartellone pubblicitario…

E con tale addensarsi di strabilianti invenzioni visive (la fotografia dark-metallica di Janusz Kaminski gioca un ruolo fondamentale), a fronte di un impasto sonoro di sinuosa raffinatezza (l’accompagnamento - a contrasto – delle note dei grandi compositori romantici dell’ottocento), ciò che resta comunque, vibrante, è l’energia del plot, il continuo contraddirsi degli eventi (in primis la falsa pista del rapporto di minoranza del titolo), la parabola esibita sulla visione (dall’orrido farsesco dei bulbi oculari alla tensione ossessiva di quel “Riesci a vedere?”), l’atmosfera tutta del racconto.
Occorre allora riprendere il filo di un discorso letterario avveniristico che pulsa ancora, sorprendente, tra le pagine di Philip K. Dick a vent’anni dalla sua scomparsa. Dal noir struggente di
Blade Runner a questo incalzante thriller
di ricomposizione psicologica, altre incombenti avventure futuribili sono passate dal libro allo schermo e l’attenzione dei cinefili padovani può in parte appagarsi seguendo le proposte offerte tra ottobre e dicembre dall’MPX e dal Torresino. Se in una delle salette della multisala di via Bomporti è già partito un mini-ciclo che recupera Blade Runner-The Director’s Cut, Impostor di Gary Fleder e Brazil (debitore nell’ispirazione a Dick), a dicembre al Torresino, con il citazionistico titolo rapporti cinematografici minori dal future noir di P.K.D.”, viene messo in cartellone un dittico composto dai film meno famosi tratti da Dick, Screamers – Urla dallo spazio (1995) e, di nuovo, Impostor: la pellicola merita davvero visibilità essendo una novità della scorsa stagione non ancora uscita a Padova!

ezio leoni - La Difesa Del Popolo - 27 ottobre 2002