da Film Tv (Emanuela Martini) |
Monaco 1972: la realtà dei fatti (o quel poco di realtà che le immagini trasmesse in tutto il mondo lasciarono intuire) e la ricostruzione di quanto, sotto copertura, avvenne in seguito. La caccia alle menti di Settembre Nero e la loro eliminazione da parte degli agenti del Mossad. Meno “fantastoria” di quanto gli atti ufficiali lascino trapelare... E più storia attuale di quanto i trent’anni di distanza suggeriscano: oggi viviamo sulle tensioni irrisolte di allora. Spielberg c’era, Spielberg sa. E si prende le responsabilità di questa consapevolezza (e le critiche irate di buona parte del mondo israeliano, dei filopalestinesi e dei conservatori americani che vedono in Munich anche un attacco alla loro politica attuale). Cinque uomini, cinque attori diversissimi: Eric Bana, il puro, nella parte dell’israeliano, Daniel Craig, l’aggressivo (sarà il prossimo 007), in quella del Sudafricano, Mathieu Kassovitz, il bricoleur, in quella del belga, Hanns Zischier, il colto, in quella del tedesco, Ciaran Hinds, il meticoloso, in quella dell’inglese. Gli accenti e le lingue si mescolano, non solo i loro, ma anche quelli della famiglia francese che vende informazioni, dei palestinesi, dei passanti, dei “contatti”, delle televisioni. Munich è un film dal doppiaggio impossibile, in continuo movimento in un’Europa multilinguistica nella quale cominciano a confondersi le etnie. Monaco, Parigi, Londra Roma, Atene, Cipro, l’Olanda, il Belgio, un andirivieni incessante, scandito da Spielberg con serrato senso del thriller. Le città solari e il Medio Oriente sono state ricostruite dallo scenografo Rick Carter a Malta, quelle continentali a Budapest, attraverso una ricerca talmente accurata di materiali d’epoca (dalle auto alle locandine affisse) e di sfumature di luce e di colore (il direttore della fotografia è Janusz Kaminski, Oscar per Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan) da restituire in maniera pressoché perfetta lo spirito del tempo. Uniche location autentiche: un mercato di Parigi (sotto l’appartamento di Ultimo tango a Parigi) e Brooklyn e lo skyline di Manhattan. Il Mondo Nuovo: non più, nemmeno allora. Spielberg lo sa, e ritorna con impressionante lucidità (come aveva già fatto in Prova a prendermi) allo stile cinematografico delle proprie origini, al ritmo, ai colori saturi, agli zoom, ai riflessi, ai punti di vista multipli, alle inquadrature che rivelano a poco a poco i loro segreti dei suoi esordi (Munich è figlio di Duel) e di Perché un assassinio, I tre giorni del condor, Il braccio violento della legge. Film di genere anche quelli, che ci rivelavano meglio di tutti gli altri le zone d’ombra della realtà. |
da Film Tv (Emanuela Martini) |
Cinque uomini ordinari intorno a una tavola imbandita: l’israeliano Avner, il sudafricano Steve, l’inglese Carl, il belga Robert, il tedesco Hans. Uno fabbrica giocattoli, un altro vende mobili antichi, uno indossa i colli a punta e i giubbini stretti degli anni 70, un altro la “divisa” rassicurante della City londinese, Il più giovane, Avner il capo, tenerissimo con la moglie e con la bambina che sta per nascere, ha l’hobby della cucina e ha preparato tutto quel ben di Dio. Ma, come gli dirà più avanti un altro capo, un patriarca francese, che ama cucinare: «Noi siamo uomini tragici: mani da macellaio, animi gentili». Mani da macellaio: i cinque uomini “ordinari”, invisibili tra la folla, che scherzano tra loro in un bar sotto il sole di Roma e che scendono in alberghi mediocri, sono cinque killer, ex agenti del Mossad (dal quale sono usciti appositamente per questa missione) incaricati di eliminare gli 11 cervelli di Settembre Nero responsabili della strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi del ‘72 di Monaco. L’altra faccia del glamour immaginario di 007, niente Bond girl, casinò, Aston Martin, ma una vita anonima ricostruita di volta in volta nelle città europee in cui li conduce la missione. La precisione mortale dei loro attacchi è però infallibile, anche se talvolta per eccesso di zelo o per errore la loro portata rischia di essere più distruttiva del necessario. Casualties of war, vittime di guerra, innocenti che si vorrebbero risparmiare, finché il sangue, la morte, la guerra in tempo di pace non diventano un’abitudine indifferente. Aperto dalla lunga sequenza eloquente dell’attentato al villaggio olimpico di Monaco, dove Spielberg mescola la ricostruzione immaginaria dei fatti alle immagini e alle voci trasmesse da tutte le televisioni e le radio del mondo, e alle reazioni palestinesi e israeliane alle notizie in diretta che s’inseguivano e si contraddicevano, Munich ci colloca immediatamente in un mondo parallelo al nostro, consanguineo, quotidiano, invisibile, prosaico, dove il massimo delle richieste è «Voglio le ricevute!», ordinato dal “cassiere” del Mossad ad Avner e da lui ripetuto ai suoi “fornitori”, perché fare attentati ed eliminare nemici costa un mucchio di soldi. Un mondo inquietante, non solo perché storicamente vivissimo (la ricostruzione degli anni ‘70 è portentosa, perché non sa di passato, non è congelata o “fedele”, ma è allora, con un trattamento delle immagini e dei colori, più o meno saturi, e movimenti di macchina e di zoom che sono cinema anni ‘70), ma perché agganciato senza soluzione di continuità al presente, perché noi siamo la nostra Storia e il debito di sangue continua. C’è un popolo che vuole essere una nazione perché la casa è tutto, e un altro che è cresciuto in un kibbutz e perciò considera Israele la propria mamma; in mezzo c’è l’Europa (rappresentata dalla grande famiglia francese di Papa, che vende informazioni a chiunque tranne che ai governi), non neutrale ma “politicamente promiscua”. Dall’altra parte dell’oceano, c’è Brooklyn e la casa, la moglie... Munich non parla di 11 settembre e di guerra, ma parla di prove, di rappresaglie incrociate, di padri mancati o bugiardi o opportunisti, di “casa” come luogo dell’anima, del bisogno umano di spezzare il pane seduti alla stessa tavola. Con una mano da maestro per il cinema di genere (ogni azione è guidata dal regista con uno stile e una tensione che rimandano all’indietro, direttamente a Duel) e un’attenzione spasmodica e una pietà istintiva per ogni singolo, minimo personaggio (dalla seducente spia olandese alla famiglia francese percorsa da struggimenti edipici, dallo scrittore ucciso a Roma al padre di famiglia vittima del secondo attentato), Spielberg compone un affresco umanista e pacifista, intriso nel sangue e mortalmente stanco di guerra. |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2006