Salvate il soldato Ryan
e La leggenda del
pianista sull'oceano.
Non è certo il caso di articolare il confronto tra i due
colossal (in termini di durata, ambizioni e, con le
debite proporzioni, impegno produttivo) sul piano del
risultato commerciale: allo sbarco nelle sale italiane di
Spielberg sta corrispondendo un'avanzata economica
massiccia e debordante con oltre 15 miliardi di lire, il
transatlantico con pianoforte di Tornatore ne ha
imbarcati "solo" 5. Ma il paragone risulta più
stimolante se li misuriamo in termini di struttura
filmica.
Saving
Private Ryan
riaccende la memoria storica della seconda guerra mondiale attraverso
lo sguardo di un vecchio americano in commosso pellegrinaggio ad un
cimitero militare in terra di Francia. Il suo non è solo un ricordo
personale (scopriremo nel finale la suggestiva ambiguità del "punto
di vista" spielberghiano), è la summa della rivisitazione della fiction cinematografica
sullo scontro cruento dello sbarco, filtrato dalla testimonianza dei
grandi documentari di guerra anni '40, dalla ricca tradizione hollywoodiana
del genere bellico (nobilitato da autori quali Walsh, Wellmann, Hawks,
Fuller), dalla straordinaria verve figurativa di Spielberg, e dalla superba
professionalità dell'equipe che lo circonda (su tutti il tecnico del
suono Gary Rydstrom, lo stesso di Jurassic
Park e di Titanic).
Gli ormai famosi venti minuti iniziali ad Omaha Beach sono una pagina-shock
di grande cinema: il sibilare della pallottole, il fragore delle esplosioni,
lo strazio dei feriti, l'orrore dei corpi dilaniati, il mare di Normandia
che si tinge di rosso
La missione che poi il capitano Miller
(Tom Hanks, perfetto: terzo
oscar?) e i suoi uomini intraprendono alla ricerca dell'unico
sopravvissuto dei fratelli Ryan, tutti caduti sul campo, diventa un
vero percorso morale attraverso le contraddizioni della guerra, l'eroismo
e la codardia, il cinismo e la solidarietà.
Ci sono alcune cadute di tensione (e di ritmo), c'è uno straripamento
retorico nella rappresentazione dell'"abbraccio" finale,
ma il monito di Spielberg è invitto e straziante e il suo cinema sa
rintuzzare un vecchio detto di Bogdanovich: "tutto il cinema
possibile è già stato fatto". Certe emozioni, certi moniti
ce li avevano già trasmessi Weir e Kubrick (citazioni "tonificate"
quelle della battaglia vista sott'acqua -
Gallipoli-Gli
anni spezzati
- e dell'agguato del cecchino -
Full Metal
Jacket), ma la rilettura in Ryan è vera rigenerazione
cinematografica: personale, magniloquente, incalzante, memorabile.
Memorabile è certo anche
La leggenda
del pianista sull'oceano, ma l'efficacia emozionale
del film di Tornatore è di tutt'altro spessore, forzosa
e, in fondo, effimera. L'idea è presa da un monologo
teatrale di Baricco. Tornatore in sceneggiatura ha fatto
un apprezzabile lavoro di ispessimento narrativo e la sua
regia riesce bene a delineare il protagonista e la sua
storia. Novecento (Tim Roth), orfano adottato dal
transatlantico Virginian, diventa leggendario per la sua
abilità di pianista eclettico e ispirato (i suoi accordi
nascono dall'"interpretare" i volti dei
passeggeri) e per la sua misantropia oceanica:
incapace di scendere a terra, turbato dalla vastità
geografica (e sociale) della metropoli rispetto alla
finitezza del mondo del suo scafo viaggiante.
Il tutto è raccontato, con un sinuoso intrecciarsi di
flash-back, dal suo unico amico, il trombettista Max, che
evita il proprio fallimento esistenziale grazie al
ricordo dell'esperienza vissuta accanto a Novecento,
poiché "non sei mai fregato veramente se hai una
buona storia da raccontare e qualcuno a cui
raccontarla".
Ed è
illustrato da Tornatore con una sontuosità
cinematografica avvincente. Dallo splendido entrare in
campo del transatlantico (che avanza sullo schermo come
fosse una tendina cinematografica), all'eclettica suonata
notturna, con Novecento e il suo pianoforte (più Max)
che scivolano all'impazzata per il grande salone della
nave, durante una tremenda tempesta. Dal funambolico
duello alla tastiera con il mitico Jelly Roll Morton,
alla ricerca del pianista scomparso nei meandri della
carcassa del Virginian: la regia si sbizzarrisce in
inquadrature ardite, sontuosi movimenti di macchina,
intensità di sguardi e di situazioni.
Eppure, con tutto il piacere della visione e la poeticità dell'insieme,
La leggenda del pianista sull'oceano è pervaso da un senso
di manierismo, di ricerca forzata di eleganza e suggestione. Come
il suo pianista, Tornatore sa stupire i suoi passeggeri cinematografici
giusto per il tempo di una traversata (filmica), non sa scendere a
terra con loro, in vera tensione narrativa ed emotiva. Gli echi felliniani
sono un prezioso bagaglio cinefilo, ma per un'epopea dell'amicizia
e dell'intimismo così ambiziosa ci sarebbe forse voluta la vena struggente
di Sergio Leone. |