Cinema-Alicorno
anno secondo. La rassegna
Pagine
e celluloide,
ci è sembrata, all'interno delle proposte cittadine dell'estate 98,
tra le più organiche e coerenti. Il fatto è che per noi l'intrattenimento
cinematografico si traduce in occasione culturale ("educativa"
per lo spettatore) se riesce a catalizzare attorno a sé percorsi che
non si riducano ai soliti cicli "a tema", ma che dal
pretesto
dei contenuti, sappiano fornire forti stimoli di riflessione sull'essenza
stessa del cinema, sul suo essere testo
linguisticamente strutturato oltre che contesto
di dinamiche sociali e culturali.
Così anche quest'anno, pur senza tornare
specificatamente al distinguo tra soggetti originali e
non, abbiamo voluto mettere a confronto tematiche affini
e stili diversi, spunti narrativi più o meno
adeguatamente sviluppati, film più o meno "grandi"
a seconda del contributo offerto, da sceneggiatura e
regia, al canovaccio di partenza.
I percorsi in oggetto sono tre, brevi ma efficaci.
Il primo,
L'OLOCAUSTO
IN FARSA, abbina la straripante vitalità
del Roberto nazionale (La
vita è bella) e il
fiducioso peregrinare del treno della vita (Train
de vie) del rumeno
Radu Mihaileanu.
Da una parte ci sono un messaggio
stralunato di (in)tolleranza ("Perché gli ebrei
e i cani non possono entrare babbo?" - "Ognuno
fa quello che gli pare. Chi ti è antipatico a te?"
- Domani ce lo scriviamo: vietato l'ingresso ai ragni e
ai visigoti"), ma soprattutto un'invenzione
narrativa semplice e poetica che riesce ad esorcizzare la
tragedia del genocidio. La grottesca assurdità del
"gioco a premi", il marionettistico andare
incontro alla morte di papà Guido salvano il piccolo
Giosuè dal trauma psicologico (e ricordiamo che la
versione USA del film, così come quella in videocassetta,
si configurano come un racconto rivissuto attraverso il
ricordo del bambino), ma ciò che dà compattezza filmica
a La vita è bella
non è certo la precisione della sceneggiatura o l'organizzazione
registica (spesso mediocri1):
tutto poggia sulla presenza scenica di Benigni, sulla sua
gigionesca capacità di stemperare il dramma e saturare
di commossa vis comica quel "fiabesco" campo di
sterminio.
Train
de vie invece non si compiace dell'idea di
partenza (la comunità ebraica di un villaggio che si
"auto-deporta" per sfuggire alla minaccia
nazista e raggiungere il confine russo), a la rigenera
passo passo, sulla base di sottili citazioni yiddish,
contraddizioni implicite nella psicologia umana e in una
mini-società messa alla prova (la settarizzazione
interna ebri-nazisti, il sorgere dell'opposizione
comunista), scintille di arguto umorismo che esaltano un
approccio esistenziale ora fiducioso, ora rassegnato (la
ciclicità del percorso di fuga come unica, vera
parentesi di salvezza), ma sempre intriso di ironia e
"fatalisticamente" vincente.
La visione del pazzo Shlomo (lo schnorrer della cultura
yiddish) è il perno narrativo di un vedere oltre, di un
voler (poter) rileggere il dramma della storia con la purezza espressiva della follia e
della speranza. È suo il sogno premonitore da cui
scaturisce l'avventura, è lui l'elemento di raccordo con
i "cugini" zingari, ma è anche suo lo sguardo
amaro e "reale" che riconsegna nel finale il
treno della vita ai binari della tragedia. In
Train de vie la ricchezza
di personaggi e dialoghi è frutto di una sceneggiatura
intensa e incalzante e dalla regia sobria di Mihaileanu
esce un'idea di cinema compiuto, costruito con meticolosa
finezza2.
L'architettura del racconto per
immagini, l'osmosi tra la folgorazione dell'idea e la
pregnanza schermica della realizzazione raggiunge livelli
memorabili in
The Truman
Show, uno dei pochi capolavori di questa
stagione cinematografica. Fin dalle prime sequenze la
ragnatela mass-mediale del film di Peter Weir3
precisa situazioni e ambiguità. Alcuni interpreti (del film e
della life-commedy di cui Truman4
ha fatto parte) si confessano alle macchina da presa
narrando del Truman Show come di un fatto reale,
buttando le premesse per un documento-verità su un'esperienza
davvero vissuta di cui noi, spettatori cinematografici,
stiamo per diventare testimoni.
Eppure quando la "vera" fiction prende vita è
difficile estrapolare il racconto per immagini che passa
sullo schermo dalla abitudinaria messa in scena di una
normale pellicola cinematografica. La vita di Truman
Burbanks scorre secondo l'ottimizzazione dell'american-way-of-life
("posto migliore di questo non esiste"),
l'iconografia ovattata di Seahaven compete con la serenità
oleografica di Norman Rockwell, ritmi e situazioni della
vicenda perpetuano l'efficienza d'intrattenimento della
situation-commedy. Eppure uno strano oggetto precipita
dal cielo, la ciclicità del quotidiano rasenta il
parossismo, su gesti e sentimenti aleggia una sospetta
artificiosità. La precarietà del vivere reale per
Truman diventa via via un tutt'uno con la nostra
percezione del meccanismo narrativo del film di Weir e
solo quando la coscienza dell'imbroglio pervade il
protagonista possiamo penetrare alfine nella finta luna
di Seahaven, da dove il regista-demiurgo Christof, domina
e "accarezza" la sua creatura5.
A disvelamento compiuto, mentre tutti i tasselli dello
spettacolo televisivo arrivano a combaciare, la tensione
diegetica del film inizia a concretizzarsi. L'opposizione tra l'ansia
esistenziale di Truman e la paternità dispotica di
Christof ("ho dato a Truman l'opportunità di
vivere una vita normale" - "nel mio
mondo tu non hai niente da temere"), ha la forza
immaginifica di un mare in burrasca e quando Truman
raggiunge e supera il confine della finzione, l'estremo
saluto al "suo" pubblico non può essere che lo
slogan del programma ("…e, nel caso non ci
vedessimo, buon pomeriggio, buona sera e buona notte").
L'angoscia estrema che lascia The Truman Show non è
quella del protagonista che entra sprovveduto nel mondo
reale, ma lo spiazzamento mass-mediale dello spettatore (televisivo)
comune, traumatizzato ("che danno adesso?"),
ma fiducioso nella prodigalità dell'imbonitore via etere
("dov'è il programma della tv?").
Il puzzle è completo e superbamente ricomposto, il geniale congiungersi
tra livelli di finzione e racconto diversi, tra punti di vista contrapposti
e integrantisi è frutto di un'operazione cinematografica al limite della
perfezione: Jim Carrey fa suo il ruolo puntando su una figura di protagonista-marionetta
classica dei tv-movie, la fanta-realtà6
incombente di L'invasione degli ultracorpi
fa capolino nella caccia all'uomo notturna dei falsi-amici, la partecipazione
fittizia dei molteplici pubblici televisivi si anima nel tifo interessato
della "sua" Lauren, l'intarsio illuminante della sceneggiatura
di Andrew Niccol trova splendida rigenerazione nella regia di Weir:
storia, dialoghi, immagini, sono un tutt'uno nell'attestarsi di
The Truman Show nel nostro immaginario collettivo.
Con
Pleasantville
siamo di nuovo nell'area edulcorata del sogno americano
vissuto in tv. Pleasantville è la cittadina ideale di
una sitcom in bianco e nero dove tutto scorre in
piacevole serenità: niente tristezza né violenza né
sessualità, niente tensioni sociali o contrasti
generazionali. Tutto idilliaco e "mitico" per
tanti giovani teledipendenti, ma quando due di loro
vengono "magicamente" catapultati dentro l'avventura
televisiva… Lo
spirito è quello un po' utopico della fiction anni '50.
Ci vuole poco perché David e Jeniffer si sentano a
disagio nell'immobilismo conformista di Pleasantville ed
inizino a scardinare le certezze virtuali del loro
ambiente: al primo bacio che Jennifer strappa ad un
ragazzo, i petali di una rosa prendono colore…
L'idea di Gary Ross (sceneggiatore e regista) è tutta
qui, semplice e "tecnologica" (col lavoro di
digitalizzazione delle immagini nel passaggio colore-bianco&nero
e viceversa7), un po'
ingenua nelle giunzioni spazio-tempo (l'espediente dello
speciale telecomando sa proprio da trita serialità
televisiva), dibattuta nella crisi autoriale di non
scivolare nella retorica (di contenuti e forma) e di
trovare, dopo l'amabile spunto iniziale, un colpo d'ala
altrettanto efficace per chiudere il racconto.
Sa meglio dove andare a parere Ron
Howard8 con il suo
EDtv.
The Truman Show gli è
stato ovviamente d'ispirazione, ma l'assunto del suo film
è più vicino al tema di Faust che a quello del Grande
fratello. Attraverso Ed, che vende la sua privacy ad un'emittente
televisiva, Howard indaga sui soliti cliché della società
americana dove la famiglia ha sempre qualche scheletro
morale nell'armadio, il sesso garantisce audience in
tutte le fasce d'età, la favola dell'amore vero è l'unica
cartina di tornasole per l'esperimento esistenziale. Se
Ed sovverte l'ordine del miraggio yankee ("tu non
sei famoso perché hai successo, tu hai successo perché
sei famoso" lo rimprovera il fratello "la
fama è un bene morale") e sa ritrovare alfine
le coordinate del proprio essere ("dove non c'è
intimità non esiste dignità"), Howard sa
adattare perfettamente il suo stile alla situazione,
sciorinando tutto il meglio e tutto il peggio dello
standard televisivo, giocando furbescamente con l'accavallarsi
delle soggettive delle riprese del network e l'oggettività
della visione d'insieme del costrutto cinematografico.
Se il trittico
IN
ONDA, SUL GRANDE SCHERMO mantiene una sua
omogeneità, pur con impostazioni e risultati diversi,
con
EX-JUGOSLAVIA:
L'ALLEGORIA E LA TRAGEDIA si sono messi
in cartellone due titoli in antitesi non solo per il tono
e lo stile, ma anche per la visione d'insieme con cui i
due registi serbi, Emir Kusturica e Goran Pascaljevic,
delineano il loro paese.
Con
Gatto nero, gatto bianco
Kusturica rinuncia all'affascinante complessità
metaforica di Underground
(1995) divertendosi (e divertendo) nel confezionare una
commedia gitana apparentemente sconclusionata, ma
efficacissima nel liberare lo spirito da qualsiasi
pregiudizio razziale, nel mettere a confronto malavita e
legalità, nel far convivere vecchie e nuove generazioni
tra ataviche meschinità e la fresca ingenuità della
giovinezza. Istinti bassi e regia alta. Il piacere nell'immergersi
nel caleidoscopio vitalistico di Kusturica
è assoluto,
ma gli eccessi del suo divertissement non possono esimere
dall'affrontare di petto il dramma dell'ex-Jugoslavia
Ci pensa Goran Paskaljevic9 che con La polveriera
coniuga tensioni irrisolte con un montaggio altalenante
ed incisivo, un taglio registico crudo e incalzante. Il film è infatti costruito
come un lancinante puzzle metropolitano in cui vari
episodi, di quotidiana inquietudine, si intersecano nell'arco
di una notte, in una Belgrado degradata e violenta. Non c'è
una vicenda predominante, ma un'angoscia incombente che
pervade ogni personaggio, situazione, inquadratura. E il
crescendo di tensione incendia progressivamente il
racconto fino ad un'esplosione finale, non solo
figurativa, che esalta la metafora di Paskaljevic. Ne La polveriera
la frammentazione narrativa rispecchia la lacerazione del
popolo serbo (il regista è da tempo un fiero opositore
di Milosevic), l'identità di un paese distrutto anche
nell'anima ("non sono colpevole" è la
frase di rito). Tra vendette, colpe ed espiazione, il
buio morale che avvolge i Balcani trova testimonianza in
un'emblematica battuta di uno dei protagonisti: "
non c'è più luce in questo paese, solo quella dei ceri
delle chiese".
Infine anche per il maxi progetto comunale
QUELLA
NOTTE SULLA LUNA
il nostro contributo vuol esser in linea con questa lettura mediata
tra contenuti e forme. Partendo dal tema del
vampirismo (la notte come
ambiente, la luna come unico riferimento
esistenziale) in un'unica serata verranno proiettati
Nosferatu
il vampiro di Murnau (1922)
e
Il
buio si avvicina
di Kathryn
Bigelow (1987). Da una parte
un classico (muto) essenziale e rigoroso negli stilemi del genere,
dall'altra l'adrenalinica modernità della regista di Strange Days. Figure stilizzate
in bianco e nero "impotenti di fronte all'avanzare del male"
contrapposte ad emaciati giovinastri ai margini della legalità, i
boschi spettrali dei Carpazi sostituiti dagli assolati paesaggi delle
provincia americana, la quiete della fatidica bara stravolta nel caos
familiare di un furgone dai vetri oscurati. Un'occasione in più per
appassionarsi al mito cinematografico dei vampiri e, al contempo,
per mettere a confronto stili e dinamiche narrative così dissimili
pur nell'ambito della stessa tematica.
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