Di chi è (per chi
è) il cinema di questi anni '90? Fuori dalle polemiche (o almeno dalle
contrarietà) sul verdetto della giuria, la domanda tocca l'essenza
dell'impostazione culturale della Mostra da qui in avanti. Per anni
l'anima dell'"arte cinematografica" - non dimentichiamo
che questo termine compare nella dicitura ufficiale della Biennale
Cinema - è stata quella della generazione del neorealismo, critici
ed esperti legati alla svolta culturale di quel periodo ed alle "rivelazioni"
più eclatanti (nouvelle vague francese, free cinema inglese...). Pensate
agli ultimi direttori del Festival: Lizzani, Rondi, Biraghi, Pontecorvo.
Questa tendenza crediamo sia arrivata oggi ad un punto di rottura
che può essere evidenziato dagli atteggiamenti di pubblico e massmedia
verso alcuni film-cardine presenti in questi giorni. Prendiamo l'Antonioni
di Al di là delle nuvole (fuori-concorso, ma in "Mostra")
e Strange Days di Kathryn Bigelow (relegata in
Notti
veneziane,
per motivi non del tutto chiari). Ne avrete sentito parlare, sui quotidiani,
in televisione.
Al di là delle nuvole
è un'opera (ovviamente senile)
di un "cinema della modernità" ormai classico",
un cinema rarefatto e intellettuale, armonioso nella
scorrevolezza del taglio visivo, nella morbidezza della
fotografia, dell'inquadratura. Una cinema che è
letteratura filmata, dove i personaggi si autodescrivono
con la lentezza del loro incedere, con la ricercatezza
delle loro battute (ma la banalità fa spesso capolino:
anche lo sceneggiatore Tonino Guerra sente il peso degli
anni), con il voyeurismo estetizzante della sessualità,
con la tensione sentimentale di un'incomunicabilità di
vecchia data.
Strange Days è
adrenalina pura: una scansione ritmica supersonica, una
colonna sonora rockettara e assordante, una tematica che
stritola in una morsa di iperviolenza il meccanismo di
genere (thriller), l'esplosione sociale dei contrasti
razziali, il pericolo estraniante della realtà virtuale,
il caos esistenziale di fine millennio.
E allora, di rimando, domandiamoci: qual è la chiave di volta del
cinema di fine millennio? Non si può chiudere gli occhi (e le orecchie)
aggrappandoci alla piacevole consuetudine di un cinema d'autore "soft"
che manda flebili e pregnanti segnali di riflessione (culturale, esistenziale,
etc.), con un rifiuto aprioristico, senza scavare sotto la corteccia
"fastidiosa" dell'esaltazione visuale di certo cinema. L'arte
cinematografica è ormai spettacolo a tutto tondo e se è facile rintracciarne
talvolta la diseducatività epidermica, è doveroso individuarne anche
la comunicazione adulta di una realtà che cresce con l'oggetto cinema
e di cui non è necessariamente "causa", ma significativo
"effetto". La società che ci vive intorno è fatta non solo
dei rassicuranti percorsi introspettivi di
Antonioni
(e, per fortuna, di una scuola cinematografica "sublime"
ancora sulla breccia, Rohmer in testa), ma anche di contraddizioni
morali e massmediali che sono talmente sconcertanti che anche l'occhio
della cinepresa spesso non sa come farsene testimone. Una società,
quella di oggi, spesso allucinata, frenetica, in fuga dalla realtà,
proprio come l'universo filmico di
Kathryn Bigelow.
La cultura d'élite e i "signori della Biennale" devono buttarsi
nella mischia della new wave cinematografica senza snobismo,
senza paura di sporcare il concorso con l'eclettismo
immaginifico di film come
Strange Days
(l'hanno scorso, per Natural Born Killers,
la firma di Stone li aveva garantiti). Non ci sentiamo certo di consigliarne
la visione a tutti, ma se vogliamo confrontarci con il nuovo cinema
della modernità - ed abbiamo stomaco (maturità) ed orecchie adatti -
non perdiamo l'occasione per riflettere sul messaggio che i giovani
autori americani ci urlano dallo schermo. L'iper-realtà del virtuale
potrà essere la vera droga del duemila come dice la Bigelow? In Strange
Days c'è una frase significativa: "Qual è la differenza
dal cinema? Al cinema c'è la musica, i titoli di coda e... sai che è
finito".
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