"Un
film non è uno sport, non dobbiamo solo correre e
prendere delle medaglie" Goran Paskaljevic
taglia corto quando gli si chiede della sua esclusione
dal concorso. "Per me era importante uscire
davanti ad un pubblico. I selezionatori della mostra
hanno potuto vedere il film solo a luglio, in
videocassetta, ancora senza le musiche. La copia
definitiva è uscita solo cinque giorni fa".
Meglio evitare ogni polemica legata alle chiacchiere sui
contrasti con l'altro regista della ex-Jugoslavia,
Kusturica ("ha un film in concorso, non voglio
discuterne") e scavare nel tessuto di un'opera
che dà finalmente lustro alla sezione
Prospettive, entusiasmando
pubblico e critica.
Bure baruta è costruito come un lancinante puzzle
metropolitano vissuto nell'arco di una notte, in una Belgrado degradata
e violenta. Un taxi percorre la città: l'autista assilla il cliente
sulle tensioni del vivere dopo la guerra, ma già la macchina da presa
si è incollata ad un giovane automobilista che lo sorpassa a tutta
velocità, si distrae importunando una ragazza, va a sbattere contro
un'altra auto. Sul luogo dello scontro arriva la polizia mentre i
due autisti stanno litigando: il giovane si barrica in macchina, l'altro
spezza il parabrezza, il ragazzo fugge...
Bure baruta si disintegra
di continuo in singoli episodi diversi, ma riesce sempre a ricomporsi
in un
racconto organico i cui protagonisti si incrociano,
si confrontano, si uccidono. Non c'è una vicenda predominante, ma
un'angoscia incombente che pervade ogni personaggio, situazione, inquadratura.
"Bure baruta vuole rappresentare il
momento difficile che sta attraversando il mio popolo.
Ultimamente sono stati girati tanti film che sono
incentrati sulla Bosnia. E' diventata quasi una moda.
Volevo realizzare qualcosa di diverso, che parlasse dello
stato d'animo dei miei connazionali, che descrivesse la
grande tensione quotidiana che ci accompagna. Come dice
uno dei miei personaggi siamo una polveriera pronta ad
esplodere". L'esplosione figurativa arriva nel
finale, perché, accidentalmente, va a fuoco un
parcheggio-auto, ma la vicenda si è già incendiata, con
crudezza, più volte: quando il tassista incontra un uomo
mutilato da un pestaggio e gli confida di essere il suo
aguzzino (una vendetta per una precedente violenza subita),
quando l'autista di un autobus dà una mortale randellata
al giovane teppista che aveva sequestrato l'automezzo e
molestato i passeggeri, quando un pugile ammazza il suo
migliore amico, sfogando il rancore per tanti sgarri
subiti e taciuti in una vita insieme.
Le
vicende sono tutte collegate tra loro, in un legame
tragico e ineluttabile.
"Il mio ritratto di
Belgrado è certamente crudo. La violenza è possibile
ovunque dove sia presente la tensione, ma in nessun luogo
la tensione è così alta".
Bure baruta
si delinea, esplicitamente, come una metafora. E
splendida. Il pugile in fuga incontra in treno una
giovane e le salta addosso. Lei fruga nella borsa che
contiene le cose del suo ragazzo, morto in guerra, ed
estrae una bomba a mano. Lui gliela stappa di mano e la
innesca mentre la stringe a sé. Il vagone esplode.
Vendetta e violenza, colpa ed espiazione. Tutto ruota
attorno a questi concetti forti che delineano l'identità
di un paese distrutto anche nell'anima ("non sono
colpevole" è la frase di rito). Angoscia e
rancore, ma anche rimpianto e ironia: ritroviamo Mané,
il cliente del taxi, che prova a riconquistare la donna
amata. Lei ormai ha un altro, ma lui la invita in riva
alla Drava e mentre un'intera orchestra su un battello
suona per lei, lui sprofonda melodrammaticamente nel
fiume. Lei lo piange disperata, lui riemerge soddisfatto,
ma il nuovo compagno lo affonda definitivamente con una
colpo di badile. "La notte è caduta sul mio
paese, che è una specie di tunnel senza fine"
stigmatizza Paskaljevic "Come dice uno dei miei
personaggi: non c'è più luce in questo paese, solo
quella dei ceri delle chiese".
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