Aguirre,
furore di Dio, liberamente tratto da un presunto 'diario
di Gaspar De Curvajal' è la cronaca, almeno nel crudo filo della
trama, di una delle tante spedizioni dei conquistadores nell'America Latina,
verso la fine del 1560.
Le immagini d'apertura scrutano in solenne rispetto la maestosità
della Cordigliera delle Ande; avvolta dalle nebbie, proiettata verso il
cielo, la montagna fa da protagonista sullo schermo fino a che il nostro
occhio non individua la colonna di uomini che si snoda lungo il suo fianco:
gli Spagnoli nelle loro imponenti armature, gli indigeni e gli animali
da soma impacciati dal peso delle vettovaglie salgono a fatica lungo i
provvisori sentieri, ondeggiano e cadono, diligentemente incolonnati ma
ridicolamente dispersi nella vastità della vegetazione equatoriale.
E' il primo accenno al contrasto uomo-natura, alla sproporzione tra l'avventurosa
impresa dei conquistadores e la potenza soverchiante di una terra vergine.
Ben presto il cammino da arduo si fa impossibile: gli Indios organizzano
la guerriglia dal sottobosco, le febbri e la carenza di viveri bloccano
la spedizione sul corso superiore del Rio delle Amazzoni. Pizarro manda
una quarantina di uomini in perlustrazione; lungo il fiume, sulle zattere,
di nuovo la sosta si fa obbligata: la forza dei flutti distrugge le imbarcazioni
e decima gli uomini ed il comandante Pedro De Ursua ordina la ritirata.
Ma Lope De Aguirre, comandante in seconda, si ammutina, prende il comando,
imprigiona De Ursua, elegge un nobile-fantoccio, Fernando De Guzman, imperatore
del Perù e, con Fra Gaspar DeCarvajal come ieratica guida spirituale
convince e costringe la spedizione a riprendere, su una zattera di fortuna,
il viaggio verso l'ignoto, alla conquista di un impero fatto di supposizioni,
con la prua rivolta al mitico Eldorado ma con un orizzonte fatto solo di
selvaggia e fitta boscaglia.
La navigazione procede a rilento, una fermata ad un piccolo villaggio di
cannibali dà sfogo alla violenza dominatrice di Aguirre e dei suoi
seguaci, De Ursua viene impiccato, sua moglie, Donna Ines, scompare nell'interno
e la zattera si isola sempre più sul grande fiume, cercando di allontanarsi
dai pericoli della giungla, ma ormai segnata da un destino funereo che
la mina dall'esterno, da una logica di follia che la erge a simbolo della
degradazione umana.
Fernando
De Guzman e Fra Gaspar De Carvajam vengono colpiti dalle frecce avvelenate
degli Indios, la figlia di Lope De Aguirre languisce in un angolo, le guide
indigene scompaiono come risucchiate dal loro ambiente naturale e, inesorabile,
l'ecatombe fa da sfondo al delirio di Aguirre: ormai solo, tra un brulicare
di scimmie che gli si arrampicano attorno, il duce della comunità
fantasma si perde nei suoi sogni di gloria ("Se voglio che gli
uccelli cadano fulminati, cadano stecchiti... Strapperemo Trinidad e Messico
alla Spagna. Pezzo a pezzo costruiremo la storia come gli altri allestiscono
uno spettacolo"), urla la sua impotente alterigia ("Io,
Furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò la dinastia
più pura del mondo... Regneremo su questo continente. Sono il Furore
di Dio e Dio è con me") mentre il fiume inesorabile lo
conduce verso occidente e la natura lo inghiotte nei meandri della misteriosa
foresta peruviana.
E' difficile descrivere a parole il fascino di questo
Aguirre,
furore di Dio; è un'opera di lirica eloquenza, fatta
tutta di immagini (dice Herzog: "Tutti i miei film hanno come sottofondo
non delle storie ma dei paesaggi") ma è anche un affilato
pamphlet omnidirezionale, in bilico su trasparenza simbolica e ricerca
storica, contro la disumanizzazione che consegue dalla sete di grandezza
e di potere, dall'insinuarsi nell'individuo e nella società di uno
squilibrio abbrutente del proprio ruolo e dei propri limiti, nel confronto
con l'ambiente circostante, coi propri simili e con la natura.
In effetti con Aguirre Herzog prende
di petto il dramma della cultura tedesca prebellica e con una sensibilizzazione
allegorica alla tragedia dell'ultimo conflitto mondiale, ne vaglia le motivazioni
di fondo, alludendo senza mezze misure, al delirio hitleriano, ma attaccando
parallelamente la filosofia nietzscheana del superuomo ed il mito nibelungico
caro agli spiriti nordici.
In Aguirre il fallimento del super-io
si ha proprio nello scontro diretto con la natura, visualizzita nel paesaggio,
ora immoto, ora pericolosamente vitale, ma sempre con una forza latente
ed un'armonia maestosa. Herzog suffraga tutto ciò con il soffermarsi
delle inquadrature sulla grandiosità ambientale e con uno scarso
ma significativo uso del parlato; nel soliloquio finale del protagonista
è accentrata la sua insana vanagloria ed il suo presunto destino
di grandezza (quel Dio è con me riecheggia sfacciatamente
il Gott mit Uns nazista), ma sono tante le frasi pronunciate che
costituiscono con architettonica precisione la monumentale paranoia distruttiva
della spedizione, la incalzante critica del film a certe istituzioni, ora
fredda e mordace ("L'oro lo lascio ai servi, per me conta il potere"),
ora convulsamente astiosa ("Per la maggior gloria del Signore la
Chiesa è sempre dalla parte del più forte" ... "Prete,
non dimenticare di pregare se no Dio te la farà pagare cara").
Si può ritrovare il raffronto tra il fiume-vita naturalistica e
la zattera-civiltà, l'affascinato rispetto per l'estraneità
del nuovo mondo (lontano non solo lo spazio di un oceano ma anche
il salto di una cultura), il muto stupore per la famelica realtà
storica delle imprese di conquista, il monito contro le crudeli gesta della
civilizzazione (inumana verso gli indigeni 'da educare', ma shockante anche
per i conquistadores, spinti in un mondo sconosciuto, a scontrarsi con
un paese, con una realtà che non è la loro, ostile negli
abitanti e nell'ambiente) e pure un accenno polemico, nella guerriglia
della foresta, agli insistiti conflitti contemporanei (col Vietnam, allora
- 1972 - in primo piano).
Ma il film di Herzog cattura soprattutto per la angosciante (quante volte
questo termine fa da perno nel discorso sul regista!), inarrestabilità
di una corsa a qualcosa (la gloria, il patere, il mitico Eldorado che perde
sempre più la sua connotazione reale, mentre il tutto lievita con
intensa espressività attorno alla potenza della natura, indistruttibile
ed imperscrutabile, antagonista silenziosa, ma fatidicamente vincitrice,
dell'uomo-superuomo Aguirre.
Ne scaturisce, una folgorante morale naturalista che si propone come alternativa
al brutale sogno di conquista; se Aguirre riesce a dominare, a sottomettere,
nel suo furore, quelli più deboli di lui, la Natura non solo gli
si erge di fronte come elemento cui è impossibile sovrapporsi, ma
si dimostra madre benigna verso chi subisce le umiliazioni del potere e
le chiede aiuto. "Parte della Natura" non è solo il paesaggio
ma lo sono anche, intimamente, gli indigeni che combattono tra il verde
della sua vegetazione, lo sono, in splendidi presenza visiva, i due Indios
che fanno per un certo tratto da guide al gruppo: il primo, un ex capo
tribù, rassegnato ma conscio della peggior situazione dei conquistadores;
l'altro, il giovane, emblema di una razza diversa e vergine, quasi ascetico
nel suo evasivo zufolare, simbolicamente in armonia con la natura, vittorioso
(se vogliamo trascendere ad un messaggio certo più cristiano che
herzoghiano) nella sua dimensione di 'povero di spirito'. Amante dell'aperta
dimensionalità degli spazi esotici ed extra-urbani (in Segni
di vita l'ambientazione era l'isola di Creta, in Fata
Morgana l'Africa ed il Sahara, in Anche
i nani hanno iniziato da piccoli un'isola vulcanica-Lanzarote)
Herzog sublima in Aguirre, furore di Dio
la sua vena caustica e poetica e, proprio nell'incontro con un ambiente
pulito e minaccioso insieme1, sente
il crescere di un afflato ottimista che positivizza anche nei contenuti
questa sua opera. |
Con
La
ballata di Stroszek la critica si fa invece meno ariosa,
più spietata ed un pessimismo esistenziale prende le redini del
gioco. Bruno, un emarginato che la prigione, dopo un imprecisato 'abbraccio
correttivo', rivomita sulle strade urbane, è il prototipo della
solitudine e dell'incomunicabilità, un tema caro ad Herzog che ha
esplorato in altre sue opere il mondo dei 'diversi' (oltre agli indios
di Aguirre, ricordiamo i nani del suo
terzo film, i ciechi sordomuti di Il paese del
silenzio e dell'oscurità e gli ipnotizzati di Cuore
di vetro),ma che qui si visualizza non solo nel racconto ma
anche nella presenza fisica del protagonista: divenuto un attore-simbolo
del cinema tedesco di questi anni, Bruno S. (il cognome è ignoto)
è un ex barbone di Berlino; nato nel 1932, figlio illegittimo, ha
conosciuto nella vita la trafila dell'emarginazione, con tutta la sua squallida
degradazione: riformatori, prigione, manicomio, tentativi di suicidio,
solitudine sociale. La sua recitazione è tetra, più corporea
che esternata: la corporatura tarchiata, i gesti pesanti, le parole centellinate
accrescono la stranezza della situazioni narrate nel film dove il 'nostro'
(ma la sua personalità è talmente fuori degli schemi che
anche lo spettatore lo guarda con distacco, senza immedesimarsi, lo sente
un 'diverso') abbandona la cupa atmosfera berlinese e, assieme alla sua
donna (una prostituta che egli ha ospitato in casa a dispetto delle intimidazioni
e delle percosse degli invadenti protettori) e ad un vecchietto suo vicino
d'appartamento (uno strano studioso di magnetismo animale) decide di affrontare
la grande avventura americana, di rifarsi una vita nella terra del benessere
e della parità sociale.
Ma l'altra sponda non è migliore, soltanto più alienante
ed illusoria: inghippati in stipendi mediocri ed in rate esose (per la
televisione a colori, gli elettrodomestici, un'immensa casa-roulotte2)
i tre perdono anche il bandolo dell'amicizia ed Eva 'riprende la vita'
accettando il passaggio di due camionisti, il vecchio Scheitz si fa arrestare
per una rapina inconsulta e Bruno fugge su di un camioncino verso il nord.
Finisce in una riserva Cherokee e lì scopre un nuovo 'mondo falso'
fatto di sfruttamento e di vacuo divertimento ad oltranza; mentre nei baracconi
del Lunapark alcuni animali ammaestrati si muovono ritmicamente sotto la
nevrotica tortura delle macchine a gettone a loro volta impazzite (=guaste),
Bruno organizza all'esterno il 'suo' carosello distruttivo: bloccato il
camioncino in una inarrestabile girotondo, egli sale con il fucile su una
seggiovia abbandonata. Lo scoppio del motore ed il riecheggiare dello sparo
pongono fine all'assurdo ruotare di un'esistenza insostenibile.
Non c'è speranza in questa ballata, come non c'era comunicazione
creativa nell'iniziale mestiere di cantastorie di Stroszek; ma per Herzog
non c'è speranza in generale per gli esclusi, siano essi delinquenti,
prostitute, anziani o semplici 'non inseriti'. La vicenda di Bruno è
tenebrosa come il suo aspetto, la sua corsa contro la solitudine è
angosciosa come lo schizoide strimpellare della gallina nel Lunapark, ma
di ancor più tragica tristezza sono le alternative che il regista
offre a Bruno ed allo spettatore: la violenta tracotanza dei protettori,
il bieco individualismo dei cinici americani, la sogghignante filosofia
del consumismo, gli sfruttati indiani della riserva.
La sola 'luce' è quella del bambino prematuro che un medico mostra
a Bruno; nudo ed indifeso il piccolo rivela un'impensata energia vitale,
si aggrappa con vigore alle mani che gli vengono tese, promette in potenza
qualsiasi impresa futura ("può diventare anche presidente
della repubblica"); ma quanto vale questo confortante esempio
naturale per la realtà abbrutente cui Bruno è costretto?
Il suo suicidio è la presa di coscienza della sua impossibilità
esistenziale e non sembra sussistere altra soluzione per chi, emarginato
quasi per destino, non sa come barcamenarsi tra una solitudine disperata
ed un abbraccio sociale ancor più svilente. Ma, viene dà
domandarsi, quello sparo ha davvero fatto saltar giù Bruno dalla
giostra sclerotica delle convenzioni? Quel cadavere che resta a dondolarsi
sulla seggiovia, in perpetuo movimento, non è ancor più asfitticamente
ancorato al 'giro' ritmico della vita? |
Certo che il pessimismo di Herzog, almeno sullo
schermo, cresce di film in film. In
Nosferatu,
principe della notte il regista bavarese compie una quadruplice
operazione: primo, rivisita il capolavoro di Murnau3,
celebrando così il suo amore per la grande scuola tedesca; secondo,
cerca di visualizzare le angosce inespresse ma latenti nell'individuo d'oggi;
terzo, propone un racconto fantastico costringendo il pubblico ad un'"evasione",
ma non inquadrata nei canoni contemporanei dell'entertainment; quarto,
ripresenta, colorandoli del nero dell'avventura vampiresca, tutti i connotati
contenutistici della sua personalità d'autore.
Siamo ai primi dell'ottocento e Jonathan Harker (Bruno Ganz4)
parte alla volta della Transilvania per portare al conte Dracula gli incartamenti
relativi alla vendita di una vecchia casa di città dove il conte
vuole trasferirsi; invano la pallida moglie Lucy (Isabella Adjani5)
lo ha scongiurato di non partire, sentendo aleggiare sul viaggio un'afa
di mistero e di morte (le sue notti sono agitate da macabri voli di pipistrelli
e da urlanti cadaveri mummificati); Jonathan raggiunge la sua destinazione,
e, noncurante degli avvertimenti premonitori degli zingari del luogo, si
addentra dove "il mondo diventa sogno e il sogno diventa mondo".
Nosferatu (uno splendido Klaus Kinski6),
con le unghie aguzze, il cranio rasato, le orecchie appuntite, fatto truccare,
dal perfezionista Herzog, secondo i dettami classici dell'espressionismo
tedesco) lo accoglie nella sua tetra dimora, gli offre una succulenta cena,
poi scompare nelle tenebre. Si ripresenta la notte seguente (ma perché
Jonathan non fugge nel frattempo?... il fascino del male? l'assuefazione
allo straordinario?), scopre sull'effigie di un medaglione il delizioso
collo della moglie del suo ospite e, subito infervorato di passione, stipula
il contratto (la nuova abitazione è proprio vicino alla casa degli
Harker), cala i suoi denti sull'inerme collo di Jonathan e, dopo averlo
rinchiuso nel castello, parte alla 'conquista del suo nuovo regno'.
Il suo bagaglio, ed il suo mezzo di trasporto insieme, sono delle nere
bare che, al suono profondo delle musiche sacre che costituiscono la colonna
sonora (L'oro del Reno e il Sanctus di Gounod), vengono trasportate
prima su una zattera lungo un fiume impetuoso, poi via mare, su un grande
veliero. Quando quest'ultimo attracca nel porto di Wismar nessuno dell'equipaggio
è rimasto in vita; i denti di Dracula e la peste portata dai suoi
bianchi topi hanno mietuto le prime vittime.
Ad esse si aggiungono di lì a poco gli sfortunati abitanti del villaggio,
sul quale i topi si spargono come un enigmatico tappeto nevoso, mentre
la notte Nosferatu, con la sua bara sotto il braccio, vaga per le strade
ella ricerca di nuovi colli da mordere. Il più agognato è
per lui comunque quello di Lucy e Jonathan, che lo ha intuito ed è
fuggito dal castello, galoppa disperatamente per raggiungere e difendere
l'amata.
All'arrivo a casa però è ormai una larva umana, distrutto
nel fisico e nella mente dal funesto "incontro di lavoro"; Lucy
lo accudisce con amore mentre guarda preoccupata lo sfacelo della città,
la moria dei suoi concittadini. Alla fine, grazie ad un libro che ha scovato
nella borsa del marito, percepisce la terribile realtà e, cedendo
alle lusinghe dell'orrido conte, si sacrifica per il bene dell'umanità.
Sempre
più pallida ma fermamente decisa, offre il suo bianco collo, più
che mai invitante, al morso dei canini del vampiro, riuscendo a trattenerlo
vicino a sé fino all'alba: il sole la troverà dissanguata,
ma troverà al suo fianco anche l'innamorato conte che soccomberà
tra atroci convulsioni alla luce purificante del mattino.
L'olocausto di Lucy è però stato vano. Al piano di sotto
Jonathan si ridesta dal suo torpore; ha il volto terreo, lo sguardo vitreo
e gli sono spuntati due maligni, aguzzi canini... La storia funerea non
ha fine, un altro non-morto vaga sul suo cavallo per l'Europa a
seminare disgrazia e distruzione, a perpetuare una tradizione di tenebra
e di terrore.
Sotto nuvole minacciose e paesaggi incombenti, in antri cupi e soffusi
interni cittadini, Nosferatu, il principe della
notte ondeggia tra la buia ombra di Dracula e la languida ed
indifesa figura di Lucy, creando un'atmosfera lenta, stagnante, ove le
immagini sono più eloquenti delle azioni dei personaggi, ma in cui
nell'insieme il silenzio angoscioso va a braccetto più con la raffinatezza
di stile che con lo stimolo emotivo del pubblico, sicché è
pesante arrivare al finale tanto per il sofferente Jonathan quanto per
l'impreparato spettatore.
Questo Nosferatu insomma, non vale
certo quello di Murnau, né ha la potenza immaginifica di Aguirre
o la denuncia sociale di Stroszek,
ma a ben guardare, a saper immergerci nella staticità figurativa
dell'opera, penetriamo con maggiore sicurezza nel magma herzoghiano e ne
riscopriamo le impennate profetiche e le dissertazioni tematiche dei due
film fin qui analizzati, arricchiti di nuovi stralci polemici e di un rafforzato
pessimismo di fondo. Stavolta Herzog arriva a cambiare il finale del soggetto
originario (lì il sacrificio di Lucy debella per sempre il male)
per assecondare i suoi presagi di sventura, ma ogni sequenza, ogni frase
fa discorso a sé nell'humus comunicativo di questo eccentrico regista.
Egli non manca di saettare sul perbenismo borghese, mostrando i compiti
cittadini di Wismar darsi alfine alle pazze gioie quando si rendono conto
che hanno ormai ben poco da vivere (ed in quest'ottica Nosferatu
sarebbe "la rivoluzione" che scardina la pigra sequenzialità
del mondo borghese) e di malignare sul binomio fede-superstizione, facendo
dire a Lucy che la fede è "la sorprendente facoltà
che ci consente di credere a cose che noi sappiamo non essere vere"
(e qui li vittoria del male sul bene e sull'ingenuità della fede
raggiunge l'apice della negatività dell'autore).
L'unico vincitore è proprio Nosferatu che riesce nel volgere del
finale a ribadire il suo dominio nell'annientamento della città,
a trasmettere la sua vampiresca eredità a Jonathan e ad appagare
il suo sogno d'amore con Lucy, ricevendone anche una morte totale inaspettata,
dolorosa ma liberatoria.
Herzog non ha intenzione, come Murnau, di incuterci paura, non vuole, come
ai tempi del primo film, annunciare il sinistro propagarsi della follia
nazista; tenta solo di farci penetrare in una dimensione di incubo che
è la materializzazione delle nostre brutture inconsce e, secondo
le sue dichiarazioni, di mettere l'accento sull'inquietante realtà
sociale che lo attornia, sul regime del terrore instaurato nella Germania
d'oggi dallo 'stato di polizia'.
Ma al di là di questa traduzione politica un po' forzata ed ambigua
(la soluzione per Herzog sarebbe forse l'anarchismo malefico dei vampiri?),
Nosferatu é la registrazione
di un altro dramma della solitudine: il conte confida ai suoi interlocutori
la propria sofferenza di non-morto in eterno, l'implacabile tristezza di
una vita senza amore, cadenzata a non finire sui gesti funerei dell'uomo-vampiro.
L'emarginazione di Nosferatu richiama
Stroszek, la liricità surreale
del tutto ci riporta addirittura a Fata Morgana,
mentre la forza dei 'quadri' fotografati da Jorg Schmidt-Reitwein va certamente
confrontata con quella di Aguirre.
Se lì era la maestosità della natura, qui è l'ineluttabilità
del male a fare da padrona e come i minuscoli conquistadores arrancavano
sulla Cordigliera, così ora i mesti cittadini trasportano, incolonnati
nella grande piazza, le bianche bare delle vittime, snodandosi in cortei
che si intrecciano e si dipanano come orrendi bruchi di morte.
Anche se, ripetiamo, il film è limitato da un'eccessiva monotonia
descrittiva e da un'esagerata negatività esistenziale, sonno molte
le pagine indimenticabili: la glaciale apparizione di Nosferatu, la lunga
spiaggia dove Lucy consuma la sua dolorosa attesa, la processione delle
bare appena citata, la brulicante invasione dei topi bianchi7,
la discesa lungo il fiume della zattera con le bare del conte (ecco un
altro riferimento ad Aguirre), il lugubre
viaggio del veliero, la fatidica notte di Lucy con Dracula, l'errabonda
partenza del novello vampiro Jonathan; e vogliamo anche ricordare l'elegante
ironia della scena in cui il conte si avventa con libidinosa passione su
un dito di Jonathan che spilla sangue per un accidentale taglietto e di
quella in cui lo stesso Jonathan, ormai trasformato in vampiro, fa scopar
via dalla cameriera i frammenti di ostia consacrata che lo tenevano relegato
in un angolo della stanza e, con un balzo felino e sogghignante, supera
il cerchio 'maligno'.
Stupisce quasi che un regista come Herzog abbia ceduto il suo occhio smaliziato
ad un mondo irreale e fantastico come quello del romanzo di Stoker, ma
oltre alla parentela di tensione simbolica con tutta la sua filmografia,
questa sua fatica vuole inquadrarsi, senza patemi qualunquistici, nel filone
orrido che sembra essere attualmente abbracciato dal cinema. Egli dichiara:
"Il film e la letteratura sui vampiri sono sorti sempre in epoche
in cui la società in crisi era sottoposta a certe pressioni: negli
anni '20 per esempio, o anche oggi. E' spesso dopo le rivoluzioni fallite
che i film sui vampiri hanno fatto la loro apparizione". |