Ghostbusters (regia
di Ivan Reitman su soggetto di Dan Aykroyd e Haroid Ramis)è senza
dubbio tra i campioni di incassi per l'anno in corso: costato circa 30
milioni di dollari, ha ormai dato sicurezza di raggiungere e capitalizzare
la cifra. È saldamente in vetta alle prime visioni di Broadway con
quasi 4 milioni di dollari e in Italia la totalizzato oltre 5 miliardi
di lire, secondo solo al verbalismo in costume di Benigni e Troisi (Non
ci resta che piangere, quasi 6 miliardi di lire ).
Facile tagliar corto, nel commento, con "cinema commerciale",
"cinema senza spessore", ma davvero nelle pagine culturali meritano
posto solo i Bergman e i Fellini? Se si vuole "capire" bisogna
"sporcarsi le mani" col cinema in assoluto, non solo col cinema
"alto", ma anche con quello dirompente dei grandi successi. Anzi
proprio da questa analisi escono spiegazioni di mercato e riscontri sociali
utili per comprendere e quindi vivere coscientemente il nostro tempo.
Innanzi tutto è certo che il cinema non è più il fenomeno
popolare di una volta, ma resta il fatto che le sue espressioni più
commerciali (quindi popolari) sono indicative di uno status sociale e culturale.
Basta prendere in esame ad esempio il cinema italiano di cassetta per percepire
alcuni aspetti... Consideriamo tre campioni filmici: Lui
è peggio di me, I due carabinieri,
Non ci resta che piangere.
Lui è peggio di me
è forse il più "onesto" nel suo vendere una
merce sfacciatamente italiota, pur nell'accezione negativa del termine.
La
comicità di Celentano e Pozzetto è tutta gestuale o "a
voce alta", sopra le righe (e, sotto le righe, neppure un soggetto
di accettabile personalità!); la gag in cui il paffuto Renato quasi
si "strangola in vita" stringendosi la cintura del cappotto è
emblematica di una comicità che si esaurisce in se stessa ed il
bagaglio di trovate che sostiene il lavoro è di una serialità
(originalità quasi nulla - ripetitività massima) e di una
banalità sconcertanti.
Il discorso per Montesano e Verdone (notare che sono
tutte coppie - ah, l'avanspettacolo!) in I due
carabinieri
è più o meno lo stesso: c'è qualche spicciolo di sentimentalismo
in più, ma c'è anche l'imitazione americana dell'eroismo
poliziesco alla Starsky e Hatch. In ogni caso davvero difficile ricavarne
qualche indicazione civile.
Che poi anche un autore (Troisi),
partito come attento lettore di una napoletanità meno caricaturale
e di una timidezza congenita nella sensibilità d'animo, si sia
rifugiato nel tempo antico per batter cassa (Non
ci resta che piangere), usando il cinema solo come "scenografia
in costume", a
far da contraltare agli sproloqui propri e di Benigni, mostra "di
che lacrime grondi e di che sangue" il nostro cinema.
E poi è ancora corretto parlare di "nostro cinema" per
indicare il cinema italiano? La pochezza di quest'ultimo, l'interscambio
culturale, innestato da tempo dal meccanismo dell'immaginario cinematografico,
inducono a ricercare tematiche e problemi nel cinema a tutto orizzonte
al di là dell'inscatolamento nazionalistico. E' superfluo precisare
che il discorso non va letto in una sola direzione: è certo la "nostra"
cultura moderna ad essere colonizzata da quella straniera piuttosto che
il contrario (anche la commercialità può essere autoriduttiva
quando pecca di provincialismo) così come è lampante che
il "commesso viaggiatore" americano è il primo interlocutore
della nostra macchina dei sogni in celluloide.
E torniamo così a Ghostbusters
e ai film che gli hanno fatto corona in questa stagione produttiva: Gremlins,
Indiana Jones e il tempio maledetto,
Beverly Hills Cop-Un poliziotto a Beverly Hills.
Per chi li ha visti e si è preso la briga di analizzarli, la prima
constatazione è quella che ci si trova di fronte ad un cinema che
vuole avere le tasche pingui ma che non è affatto "stupido",
semmai "facile" (easy-movie potremmo chiamarlo) nel senso
che basta poco per apprezzarlo, ma questo non vieta che ci sia "sotto"
altro, da capire e da apprezzare.
In Ghostbusters
i protagonisti, scienziati cacciati dall'eden universitario, si confessano:
"metterci in proprio... eh, io ho lavorato nell'industria privata,
quelli esigono risultati". E'
una satira feroce su certa leggerezza professionale non solo americana
(in ogni caso pochissime le risate in sala alla battuta, troppo poco facile?),
ma è anche una citazione metalinguistica di chi sa che, facendo
del cinema "in proprio", non è possibile non guardare
al botteghino.
Ogni fotogramma di queste produzioni americane è in effetti calcolato
per mungere denaro ovunque nel mondo, ma (proprio per questo) è
costruito con validi impianti narrativi, con una professionalità
sempre ineccepibile. Non solo. A ciò (qui sta il punto!) fa spesso
riscontro una selva di sottocontenuti che
non sono altro che una confessione, più o meno inconscia, di tensioni,
angosce, responsabilità di una società multimediale.
In Beverly Hills Cop
Eddy Murphy, quando è catapultato dai "cattivi" attraverso
una vetrata, sentenzia con distacco: "La mamma si arrabbierà
quando saprà che mi avete preso un mattone" e proprio come
un mattone spacca-tutto sfreccia la vicenda del film di Martin Brest (1984).
E'
tutto ed è già abbastanza, ma è possibile dover essere
contenti solo perché un film d'azione è fatto bene? Volendo,
qualche riflessione si può fare anche su questo, visto che la risata
"grassa" del protagonista è adeguata al vivere opulento
di Beverly Hills e la figura del suo poliziotto, "nero" tra una
polizia di colletti bianchi, non è che l'elemento catalizzatore
per il disvelarsi dello sporco infido di una città troppo linda.
E in Gremlins
(Joe Dante, 1984) gli orribili mostriciattoli che si sollazzano da "adulti
vissuti" al bar e si intruppano infantilmente in un cinema per
godersi Biancaneve e i sette nani
non sono clonati,
per strana casualità, dal mite Gizmo? E il bene e il male non
sono forse l'opposta faccia del nostro vivere? Il rischio sono le coincidenze,
gli incidenti di percorso, come quello del raccontino nero del Babbo
Natale nel camino (narrato da Kate, la protagonista femminilequizn°8)
in cui un'idea affettuosa si trasforma in macabra realtà.
Non pretendiamo certo di trovare chissà quali
discorsi "di fondo" in Indiana Jones
e il tempio maledetto di
Spielberg
('84), sostenuto dal puro desiderio, affatto inconscio, di eroismo ed
avventura. E allora, quella di un buon libro o di un buon film non è
la scelta giusta? Sempre meglio che vedere "adulti d'elite"
impegnati, come fosse una ragione di vita, in "Esotic Trophy and
Adventures" di compagnie di viaggi o di tornei sportivi...
E chiudiamo ancora con Ghostbusters
vera fucina di "facili" riflessioni: il ritmo visivo e sonoro
scatenato, 'demenziale' di certo filone (da Animal
House a The Blues Brothers) è davvero solo vacuo sintomo
della civiltà filmica? Non è il caso di riprendere le precedenti considerazioni
sull'argomento, ma si può aggiungere, tra l'altro, che Ghostbusters,
che cattura il pubblico (giovane) e spiazza la critica (di una certa
età) non sia frutto di sceneggiatori adolescenti, ma di una scuola
autoriale (Aykroyd, Ramis, non dimenticando la figura di John Belushi)
che è cavilloso inserire per forza nello spirito sessantottesco,
ma che certo, in concomitanza d'età con le illusioni e le disillusioni
di quella (e questa) epoca, cerca di scandalizzare per accumulo e sguaiatezza
di idee. E che, proprio di ciò che irride, sottolinea la forza
e la pregnanza sociale: la formazione culturale dell'ambiente universitario
di Animal House, la "salvifica"
esperienza della musica per una generazione (The
Blues Brothers) e in Ghostbusters,
anche se in forma incredibilmente sbracata, la tensione al soprannaturale,
la coscienza dell'Apocalisse.
Non c'è da stupirsi allora che gli acchiappafantasmi, impegnati
ad acchiappare "facile" denaro, vadano ad acchiappare anche i
propri fantasmi culturali; che il demone del Male (zuul, di tradizione
ittita), signore della distruzione imminente, trovi la sua dimora in un
frigorifero (lo faceva scoppiare perfino Antonioni in Zabriskie
Point) ed alberghi tra lattine di Campbell Soup e Coca Cola!
e.l.
CM 62 - terzo
trimestre 1985
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