VENEZIA 2000
L'inutilità fatta Mostra!

 

TNE - Occhio Critico

30/8

Non si sa ancora come andrà avanti questa 57° mostra, ma l’apertura ci ha già regalato un accattivante sogno cinematografico.
La considerazione di
CLINT EASTWOOD film successivo in archivio, tra il pubblico e nella critica è stata alterna, ma sempre crescente. Il pistolero dagli occhi di ghiaccio è un vecchio ricordo per i patiti del western. La trilogia di Leone, Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono il brutto il cattivo, l’ha immortalato in un’icona di distaccata recitazione ed efficacissima presenza scenica, esasperata e portata poi in polemica sociale con il violento cinismo dell’Ispettore Callaghan. Siegel regista e Clint attore si presero l’etichetta di fascisti, ma il revisionismo cinefilo ha fatto piazza pulita di tanto pressapochismo e il contributo nella filmografia di Eastwood delle sue performance quale regista ed interprete di tendenza hanno chiuso il cerchio sulla sua immagine di vero autore.
Regie come Honkytonk Man,
Bird, Gli spietati, Un mondo perfetto, I ponti di Madison County, Fino a prova contraria e le interpretazioni, oltre che nelle pellicole citate, in film quali Una calibro 20 per lo specialista, Fuga da Alcatraz, Nel centro del mirino, lo mettono ormai , nell’empireo dei grandi di Hollywood, con una sottile, insinuante tematica personale che amalgama l’elegia amara del western, con il monito per la spirale di violenza evidenziata in Callaghan, l’amore per il jazz con la grintosa e serena accettazione di una terza età che è entrata con naturalezza nel suo essere uomo e protagonista cinematografico. Da Gli spietati a Potere assoluto, da Nel centro del mirino a questo Space Cowboys, storia di un squadra di piloti di aviogetti che negli anni 60 si vide emarginata, con l’avvento della Nasa, dal sogno della conquista dello spazio. Ora, nell’era dello Space Schuttle, c’è un problema lassù nel cielo con un satellite russo obsoleto, strutturato ancora con tecnologie di quarant’anni prima. Il colonnello Corvin accetta di dare la sua consulenza solo se per la missione di riparazione saranno inviati lui e i vecchi componenti della squadra. Cosi i "vecchietti" Clint Eastwood, Tommy Lee Jones, Donald Sutherland e James Garner si preparano al tanto atteso volo nello spazio e quando il momento arriva esperienza ed eroismo si sposeranno secondo i consueti crismi del cinema americano. Perché godersela tanto allora per un film come Space Cowboys? Perché l’approccio di Eastwood è lineare e umano, va a tutta manetta quando deve far schizzare aerei ed astronavi nel cielo, ma usa più le tecniche emozionanti, del cinema classico che le mirabilia degli effetti speciali, perché sa costruire una buona metà del film come una commedia sorniona di amicizia, ripicche e rivendicazioni, perché pur con qualche caduta di tono (una scazzottata ed una love-story di troppo) sa chiudere alla grande passando dalla tensione mozzafiato per l’esito della missione alla "celestiale" carrellata che lambisce il suolo lunare e va a chiudere sul corpo esangue di Hawk, mentre risuonano le note di Fly Me to The Moon, suonata da Count Basie, cantata da Frank Sinatra. Un suggello per il film e per il nostro immaginario cinematografico. Clint. Fortissimamente Clint.

31/8

Si è aperto finalmente il concorso è l’Italia ha fatto la sua buona figura con I cento passi di Marco Tullio Giordana.
C’è stato un periodo in cui l’aggettivo che caratterizzava il nostro cinema era "carino". Una serie di film piacevoli ma con poca sostanza in stile e approfondimento. Ora si intravvede un ritorno al sociale e quello del Sud resta un tema principe. L’anno scorso Michele Placido con il suo
Del perduto amore, ora questo I cento passi che ancora parte da un fatto reale e lo affronta in modo asciutto e vigoroso.
La figura di Peppino Impastato che ripudia l’ambiente mafioso della sua famiglia e da voce ad una controcultura di sinistra di libertà e denuncia cresce con coerenza e passionalità nel corpo narrativo di una pellicola lineare, forse talvolta didascalica, ma girata con buona scelta di tempi, azzeccata nelle interpretazioni, capace anche di commuovere nei sofferti rapporti di Peppino i genitori. Certo il dramma della vicenda sembra risolversi per Giordana talvolta più in un dovere morale di rappresentazione che in una compiuta opera filmica e A Whiter Shade of Pale come accompagnamento ad un funerale comunista di fine anni ’70 ci è sembrato fuori registro.
Può andar bene il termine "dignitoso" per inquadrare questo nuovo corso del cinema italiano?

1/9

Giornata contraddittoria questa al Festival, giornata di "parole". Parole dotte e forse un po’ noiose quelle che accompagnano i tableau vivant di De Oliveira (stiamo parlando del portoghese Parole e Utopia), parole un po’ futili quelle che escono dal divertente cicaleggio di Dr. T and the Women: un Altman minore, decisamente da botteghino con un gineceo di attrici a coccolare il bamboccione Richard Gere.
Parole a iosa infine, un po’ di scandalo, tra critica e pubblico, per il coreano
Seom-L’isola di Kim Ki-duk film successivo in archivio. Amena cornice quella di un lago per pescatori che si isolano su case-zattera galleggianti. Tra commedia kitsch e dramma passionale il punto di non ritorno per il pathos narrativo e per lo stomaco dello spettatore è quando il lui della storia tenta un agghiacciante suicidio infilandosi in gola un grappoli di ami da pesca. Sangue e orrore certo, ma anche uno spiazzante senso del ridicolo: lei, per nasconderlo alla polizia, lo butta in acqua. Poi letteralmente lo ripesca e gli toglie amorevolmente gli ami dalla bocca. E che dire quando lei, vedendosi abbandonata, trova un luogo più intimo e scioccante per quegli ami acuminati? Dal macabro al grottesco, la poesia surreale di una storia d’amore sembra sfilacciarsi in una prosa cinematografica stucchevole (e sgradevole), ma Kim Ki-duk è un cineasta da seguire con attenzione e un film come L’isola a un festival ci sta, anche se, per molti, Barbera e compagni hanno "pescato" male.

2/9

Cosa ci infastidisce di più? La sfacciataggine visionaria di Salvatores o il bofonchiare recitativo di Sergio Rubini? Forse, semplicemente, Denti non ci è piaciuto per l’inconsistenza generale: metafora da fumetto e introspezione da Grand Guignol. Dopo il bluff di Nirvana Salvatores è in caduta libera.
Sempre sferzante, invece, il cinema di Takeshi Kitano. Archiviata la delicata parentesi di
L’estate di Kikujiro il regista giapponese torna con Brother ad una storia cupa, un classico gangster-film, ma ovviamente nel suo inconfondibile stile: inquadrature gelide e montaggio secco, un tono estraniato, fatalista e sopra le righe. E, qui e là, improvvise sequenza shock, spari e sangue che invadono lo schermo, vere esplosioni di violenza visiva, veri lampi di grande cinema.

3/9

Dopo tanti anni di silenzio sociale, di film "giovani, carini e disimpegnati", Venezia fa da catalizzatore per una nuovo corso di cinema civile. Dopo I cento passi ecco Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca che coniuga splendidamente denuncia di cronaca e intensità cinematografica.
"Chi era Rizzotto Placido da Corleone? La bravura di Scimeca è quella di accompagnare lo spettatore passo passo nell’evolversi della storia, nella sua lotta contro la mafia che sfocerà nella sua scomparsa nel marzo del ‘48. Il tutto con un tono apparentemente cronachistico ma intriso di un vigore civile che inchioda alla sedia col fascino del romanzo popolare e la coscienza di una realismo ineluttabile. E quando nell’ultima sequenza, Pio La Torre, nuovo segretario, ringrazia il carabiniere che ha svolto le indagini ed ha arrestato Luciano Liggio e questi si presenta con il suo nome e grado, "Capitano Alberto dalla Chiesa", l’applauso in Sala Grande è esploso, scrosciante, prolungato, meritatissimo.

4/9

Giro di boa per la Mostra e primo bilancio, confessiamolo, in negativo. Il concorso, per quanto visto finora, non ha riservato grandi sorprese e quello che lascia perplessi è la mancanza di senso della misura per tanti autori. È il caso ad esempio di The Goddess of 1967 (La dea del '67) produzione anglo-giapponese di Clara Low. Sfizioso lo spunto di partenza (in quanti ricordiamo con nostalgia la mitica Citroen Pallas?), surreale il gioco visivo sia nel taglio delle inquadrature, sia nel pattern cromatico, intrigante il confronto esistenziale dei due protagonisti: lui, giapponese, eclettico collezionista d'auto e pirata informatico, lei presenza enigmatica anche per l'handicap della sua cecità. Il tutto su un impianto on the road a cui l'Australia dona una paesaggistica affascinante e che la regia sa inframmezzare con insert dedicati alla dea del titolo (la Pallas ovviamente) e corroborare con un sonoro di vibrante modernità.
Dove cade Clara Low? Sull'estenuante lunghezza, sulla ridondanza degli spunti visivi e narrativi, su un eccessivo, inutile ricorrere a flash-back, spiegazioni, colpi ad effetto quando l'emozione e la intelligenza dello spettatore hanno già chiuso il cerchio. Peccato, occorre quasi rimpiangere i dispotici produttori hollywoodiani che davano imposizioni agli autori. Con qualche ben assestato colpo di forbici, The Goddess of 1967 poteva essere la rivelazione di questa Mostra.

5/9

Perché l’epica della guerra partigiana non riesce a trovare una vibrante rappresentazione cinematografica?
Dopo l’avventura da fotoromanzo di
Porzus e il temino malriuscito di Piccoli maestri anche Il partigiano Johnny purtroppo delude. Certo il testo di Fenoglio era forse il più difficile da trasporre sullo schermo, tra intarsio dialettale e introspezione psicologica, ma far cinema vuol dire anche riuscita espressiva, senso del ritmo e coinvolgimento emotivo. La colonna audio del film di Chiesa è a livello amatoriale: una presa diretta che fa risuonare i passi come cannonate, gli spari dei moschetti come fuochi d’artificio. Poi un imperversare di musica per archi, il solito io narrante tappabuchi, dialoghi recitati più che interpretati. E oltre alle non convincenti prove degli attori (Dionisi compreso) una trascrizione degli eventi, delle problematiche storiche e personali che trovano raramente la scintilla dell’emozione.
E che di fronte a tali pagine della nostra storia si resti indifferenti è davvero un’occasione perduta.

6/9

Ventata di freschezza al Festival con la presentazione, fuori concorso, del nuovo film di Woody Allen. È un ritorno all'antico, alla comicità immediata dei suoi esordi, battute e gag a raffica, situazioni e gesti che portano ad una continua esplosione di ilarità. E la presenza sullo schermo di lui come attore è un tassello fondamentale: sempre buffo e imbranato, con un divertito ammiccare alla presenza scenica del suo personaggio, ma anche con un lieve tocco nostalgico nel ricercare la propria semplicità d'autore e una certa serenità dell'esistenza.
Small Times Crooks è davvero di una comicità travolgente nella prima parte, più sornione e ironico nella seconda, ma in ogni caso quello di Allen è sempre vero spettacolo cinematografico. C'era bisogno qui a Venezia, tra tante soffocanti opere irrisolte, di una boccata d'ossigeno.

7/9

Claudia Shiffer e lo chador. Le luci del Lido e i massmedia si accendono per la presenza della topmodel, ma la tematica forte che vale la pena di segnalare è la sofferenza, il tormento che accompagna la condizione femminile in Iran. Se ne aveva avuta menzione nel delicato trittico di Marziyeh Meshkinì Il giorno in cui sono diventata donna, presentato nella Settimana della Critica, torna ora vibrante ne Il cerchio di Jafar Panahi, in concorso. Un titolo che è un’evidente metafora visto che il film inizia con un sportellino che si apre su una sala parto e si chiude, in analogia, con il chiudersi dello sportellino di una cella.
La nascita è quella di un bambina, in carcere finiscono alcune donne. La loro odissea è cupa e senza speranza. Escono di prigione ad inizio pellicola, non possono che tornarci alla fine. Le città, le strade sono pattugliate, ma non è un problema di crimini commessi, ciò che anche Il cerchio descrive, è la colpa di essere donna in una società maschilista e oppressiva. Quello di Panahi è un pedinamento realistico e partecipe, il ritmo non è certo quello hollywoodiano ma il puzzle di queste figure segnate dal destino, sorrette da un’esemplare forza d’animo ha un respiro civile e cinematografico che lascia il segno. Il movimento circolare che nell’ultima sequenza abbraccia tutte le protagoniste nella penombra della cella non è solo un ribadire il titolo, è un simbolico abbraccio di solidarietà di un regista uomo alle donne del suo paese.

8/9

Finale in bellezza per il cinema italiano. Carlo Mazzacurati ha suggellato il concorso con La lingua del Santo, un’opera in parte fuori dalle sue corde per il tono spumeggiante da commedia, ma senza dubbio perfettamente omogenea con l’attenzione costante nella sua filmografia per una realtà sociale che potremmo definire "appartata", fatta di personaggi non in sintonia con valori e concretezze quali potere, denaro, successo.
Qui poi Mazzacurati radica la storia nella sua Padova e giocando sul furto nientemeno che della lingua di Sant’Antonio, viviseziona amabilmente sentimenti e superstizioni della sua gente, s’insinua con la macchina da presa tra le varie umanità dei bar locali, assegna un ruolo nostalgico, di rifugio e consolazione esistenziale, alla laguna veneziana.
Non solo, gioca sul simbolo della "lingua" sottratta al fervore popolare, e offerta ai suoi protagonisti oltre che come provvida occasione di riscatto civile, come voce ritrovata per il tormento interiore di Willy.
Paradossalmente però proprio il continuo io-narrante che intesse il sostanziale velo di amarezza e che dà dignità e consistenza autoriale al film, appare il punto debole di un’opera che da una parte costruisce passo passo, con meticolosità stilistica, il proprio punto di equilibrio, dall’altra sembra talvolta lasciarselo sfuggire.
L’ambiente umano che il collage d'immagini de
La lingua del Santo riesce a delineare è insomma autentico e incisivo, il viva-voce del teorema sentimentale ed esistenziale che lo accompagna meno convincente.
E questo comunque senza nulla togliere al piacere della visione. Al film di Carlo speriamo non sfuggirà un qualche riconoscimento della Giuria e saremmo pronti a scommettere su un consistente successo di pubblico. Congratulazioni.

 

ezio leoni - TeleNordEst - agosto/settembre 2000

 

      L'anno scorso Un uomo perbene, quest'anno, dopo I cento passi, ecco Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca. L’ordine di citazione, diciamolo subito, non è casuale, né solo coerente con le date di presentazione veneziana. E’ una piccola scaletta qualitativa, perché se il film su Tortora risultava confuso e irrisolto e I cento passi ha fatto dignitosa figura in concorso (pur con una passionalità argomentativa non sempre convincente) questo Placido Rizzotto (Cinema del Presente) coniuga splendidamente denuncia di cronaca e intensità cinematografica. "Chi era Rizzotto Placido da Corleone? Tante volte me lo sono chiesto. Tante volte ho provaro a immaginarmelo, a dargli un volto, una camminata, un tono di voce" L’approccio con cui Pasquale Scimeca si è rivolto al "caso Rizzotto" è mediato da una conoscenza non certo approssimativa dei fatti di mafia siciliani (le fonti sono ben tre libri sul caso, in primis Pugni chiusi di Dino Paternostro), ma il film accompagna lo spettatore passo passo nell’evolversi della storia: Placido, ancora ragazzo, assiste all’arresto del padre per associazione mafiosa, poi, partigiano, si scontra con la brutalità nazifascista (molto efficace la sequenza in cui, da solo, stermina una pattuglia nemica senza però riuscire a salvare alcuni prigionieri dall’impiccagione). Al ritorno nella sua Sicilia, a Corleone, si schiera come sindacalista contro la mafia e diventa ben presto Segretario della Camera del Lavoro, in prima fila per l’occupazione popolare delle terre incolte. La sera del 10 marzo 1948 scompare nel nulla...
Per uno strano caso del destino attorno a questo fatto vi fu un convergere di personaggi che sarebbero poi diventati famosi, a vario titolo, per la storia dell’Italia contemporanea: Liciano Liggio, il suo assassino, arrestato incriminato e poi prosciolto per questo delitto, il giovane studente universitario Pio La Torre che subentrò a Rizzotto come Segretario, il capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa che fu a capo delle indagini e riuscì a mettere in cella i colpevoli. Ed è proprio quando, nell’ultima sequenza, il nuovo Segretario ringrazia il carabiniere e questi si presenta con il suo nome e grado, che l’applauso in Sala Grande è esploso, scrosciante, prolungato per tutte le didascalie di coda che riassumono l’evolversi degli eventi: dall’assoluzione di Liggio e le sue successive incriminazione alla tragica fine di La Torre e Dalla Chiesa.
"A cosa può servire oggi un film su Placido Rizzotto? E perché raccontare (e a chi?) la sua vita e la sua morte?" L’energia che si respira nella commossa rievocazione cinematografica si ritrova nelle ispirate parole di Scimeca: " Io penso che, lontano da ogni retorica, il sublime senso poetico che emana ogni manifestazione di coraggio, ogni puro sentimento, ogni difesa dei deboli, ogni fatto autenticamente popolare, merita di essere narrato, ha bisogno anzi di essere narrato e tramandato alle generazioni, affinché tra le generazioni gli uomini non smarriscano più i sogni."
L’eco del film di Scimeca si è prolungato fino a sera quando, nell’incontro stampa, la parole del Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia e di Nando Dalla Chiesa hanno dato ulteriore voce all’evento "Pensavo di essere ferrato in materia ma il film è riuscito davvero a entrarmi dentro a crearmi fortissime emozioni" ha detto Lumia "C’è una frase che pronuncia Rizzotto e che davvero sintetizza come allora e oggi occorra confrontarsi con Cosa Nostra: la mia dignità non la cedo alla mafia!"

e.l. - Il Mattino di Padova - 4 settembre 2000

 


LEONE D'ORO
Il cerchio di Jafar Panhai - Iran/Italia
Premio Speciale della Giuria
Uttara di Buddhadeb Dasgupta - India
Premio Speciale per la regia
Before Night Falls di Julian Schnabel - USA
Premio per la sceneggiatura
Claudio fava, Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana (I cento passi)
Medaglia d'oro del Senato
La vergine dei sicari di Barbet Schroeder - Francia/Colombia
Coppa Volpi interprete maschile
Javier Bardem (Before Night Falls)
Coppa Volpi interprete femminile
Rose Byrne (The Goddess of 1967)
Premio Mastroianni
Megan Burns (Liam)

 

Il festival di Sharon Stone e Richard Gere? Forse alla luce dei massmedia questo 57a mostra del cinema ha dato di se un'immagine effimera. Beh, non era solo un'immagine… Mai come quest'anno il festival è sembrato quasi inutile: non con lacune organizzative aberranti, non con pellicole vergognosamente improponibili, ma con un livello qualitativo incredibilmente piatto. Difficile individuarne la causa. Pochezza della produzione mondiale? Strana una caduta così improvvisa, non suffragata dal panorama di Berlino e Cannes. Errori di selezione? La fiducia in Barbera rimane, viene il dubbio che la sua équipe si sia consolidata su esperti e critici di chiara fama, ma ovattati nella scelta di un cinema standardizzato, da mettere "in mostra" senza rischi, quindi poco innovativo, non sufficientemente "di tendenza".
Tale situazione davvero poco entusiasmante non si è fortunatamente verificata per quanto riguarda la produzione italiana in concorso. Da tempo il nostro cinema non faceva una così bella figura (al di là del Leone a
Così ridevano due anni fa) e il premio per la sceneggiatura assegnato a Claudio fava, Monica Zapelli e Marco Tullio Giordana per I cento passi ne dà testimonianza.
Partiamo proprio dal film di Giordana che è già nelle sale e che permette al pubblico una verifica diretta della sua consistenza filmica. È l'ennesimo fatto di mafia, storia vera con luoghi e situazioni ben riconoscibili e un finale immancabilmente tragico. Vittima predestinata è Peppino Impastato, che ripudia l’ambiente mafioso della sua famiglia e si schiera con fermezza contro gli intrighi, l'omertà e i delitti che soffocano qualsiasi voce democratica a Cinisi, paesino del palermitano. Peppino sposa la causa della sinistra, s'infervora con gli ideali della controcultura degli anni '60, fonda con gli amici una radio di aperta opposizione al potere locale, si candida alle elezioni comunali del '78… Due giorni prima del voto viene ucciso e il suo assassinio resta impunito per vent'anni: solo nel 1997 la Procura di Palermo rinvia a giudizio il boss Tano Badalamenti e ancor oggi il processo non è avviato.
Marco Tullio Giordana abbraccia senza esitazioni la rappresentazione di un fatto sociale che travalica la vicenda di cronaca e diventa un accorato pamphlet di solidarietà d'intenti: "Questo non è un film sulla mafia, è piuttosto un film sull'energia, sulla voglia di costruire, sull'immaginazione e la felicità di un gruppo di ragazzi che hanno osato guardare il cielo e sfidare il mondo nell'illusione di cambiarlo". In tale atteggiamento della regia sta il pregio e il difetto di I cento passi (il titolo fa riferimento alla distanza tra la casa di Impastato e quella di Badalamenti): il tono appassionato con cui sullo schermo viene rievocata la vicenda resta in fondo didascalico. La macchina da presa di Giordana si muove nervosa, a seguire l'impeto sociale di Peppino Impastato, ma pur con tanto vigore narrativo, il dramma resta impresso dignitosamente su pellicola, non del tutto efficacemente nei nostri cuori.
Ben altro effetto ha avuto la proposta nella sezione Cinema del presente di
Placido Rizzotto, in cui Pasquale Scimeca coniuga splendidamente denuncia di cronaca e intensità cinematografica. Sempre Sicilia e sempre un delitto di mafia, quello di Rizzotto, ex-partigiano, sindacalista, Segretario della Camera del lavoro di Corleone. La bravura di Scimeca è quella di accompagnare lo spettatore passo passo nell’evolversi della storia, nella lotta contro Cosa Nostra intrapresa dal protagonista, che sfocerà nella sua scomparsa nel marzo del ‘48. Il tutto con un tono apparentemente cronachistico ma intriso di un vigore civile che inchioda alla sedia con il fascino del romanzo popolare e la coscienza di un realismo ineluttabile. E quando, nell’ultima sequenza, Pio La Torre, nuovo segretario, ringrazia il carabiniere che ha svolto le indagini ed arrestato Luciano Liggio e questi si presenta con il suo nome e grado, "Capitano Alberto dalla Chiesa", la morsa dell'emozione attanaglia davvero, intensamente, come sempre il cinema dovrebbe fare. Come mai un film come Placido Rizzotto è stato relegato in Cinema del presente anziché in concorso? Ecco un'altra delle perplessità, un'altra delle contraddizioni della Mostra.
Avrebbe potuto tra l'altro ben sostituire alcuni film in lizza forse non all'altezza (non crediate che il cinema italiano abbia sanato d'improvviso tutte le sue lacune). Denti, di Gabriele Salvatores, e
Il partigiano Johnny, di Guido Chiesa, sono da dimenticare, il primo perché è una non-storia, allucinata e fastidiosa, sfacciatamente visionaria e narrativamente inconsistente, tra metafora da fumetto e introspezione da Grand Guignol. Il secondo perché con una colonna audio raffazzonata e una regia sciatta non riesce a trasmettere né l'epica della guerra partigiana, né la sofferenza interiore del suo personaggio. Un'occasione davvero perduta dopo le delusioni precedenti di Martelli (Porzus) e Luchetti (I piccoli maestri).
 
La presenza italiana a Venezia si è chiusa comunque in bellezza con La lingua del Santo di Carlo Mazzacurati. Il regista padovano osa avventurarsi fuori dalle sue abituali corde autoriali (personaggi introversi, atmosfere intimiste, evolversi narrativo trattenuto) e vira sul divertimento e sulla commedia. Non perde però di vista né i suoi disadattati esistenziali né il contatto fecondo con la sua terra d'origine. Willy (Fabrizio Bentivoglio) e Antonio (Antonio Albanese) sono due ladruncoli che arrivano a rubare, fortunosamente, nientemeno che la teca con la lingua di San'Antonio. È l'occasione della loro vita (la leggono quasi come un regalo della provvidenza) e la lunga operazione per il recupero del riscatto permette a Mazzacurati di vivisezionare amabilmente sentimenti, religiosità e superstizioni della sua gente. La sua macchina da presa riscopre la fauna bislacca dei bar di provincia, la grettezza morale di una borghesia arida di valori, l'ansia collettiva di un benessere di cui il NordEst è doveroso emblema.
Non tutto funziona ne La lingua del Santo: da una parte alcune situazioni cadono banalmente nel macchiettistico, dall'altra lo sproloquio dell'io-narrante di Willy (pur motivato dal gioco simbolico di una "lingua" ritrovata per esprimere il proprio tormento interiore) sostiene da solo il peso della riflessione esistenziale. Ma la vitalità estemporanea dell'insieme, la pregnante umanità di un ambiente sociale di rado così ben abbozzato, il palpitare evidente di una sincerità di scrittura che cerca di rinnovarsi e comunicare, sono pregi non da poco e il risultato è un film brillante e amaro al contempo, dimesso nelle aspettative personali (come l'abbigliamento di Willy), esuberante nelle speranza di un domani migliore, come le note di Guantanamera.

ezio leoni  La Difesa del Popolo - 16 settembre 2000

  TORRESINO ALL'APERTO! giugno-agosto 2001


      Oltre 300 milioni in Veneto (di cui 80 a Padova), circa 900 quelli racimolati complessivamente sul territorio nazionale da La lingua del Santo. Sovradimensionato il dato locale o "misera" la risposta delle altre piazze? La domanda può riformularsi in prospettiva "sostanziale". Il nuovo film di Carlo Mazzacurati pecca di provincialismo o il pubblico tende ancora a snobbare certa produzione nazionale? La domanda è da addetti ai lavori (ma non accusateci di campanilismo se abbiamo preferito La lingua del Santo a Pane e tulipani), quello che ci premeva sapere dal regista padovano era se questa nuova verve da commedia brillante fosse una parentesi o una svolta decisiva nel suo percorso artistico. Amabile e sornione come suo solito Carlo ha glissato: "In tanti mi hanno chiesto se ho voluto rifare la commedia all’italiana. Probabilmente la commedia ce l’abbiamo nel sangue e viene fuori da sola, quasi senza accorgersene. Non c'è stata nessuna svolta, faccio quello che mi capita, che sento. Io racconto le storie che trovo, certo qui ci sono cose un po' azzardate che non avevo mai sviluppato in precedenza. La presenza di due attori come Bentivoglio e Albanese, che hanno aderito in modo assoluto, mi ha dato coraggio. Avevo io stesso la voglia di divertirmi, ma mi sembra comunque che più che di comicità pura si possa parlare di tono surreale. Ne La lingua del Santo c'è anche l'idea di un qualcosa che appartenga un po' a tutti: è difficile stare dentro una definizione di "genere". Nel cinema USA si accetta che esista un altrove cinematografico, gli americani amano reinventare la realtà attraverso la fiction, noi europei non siamo molto credibili quando lo facciamo, abbiamo bisogno di un'aderenza alla realtà."
E il contatto concreto con luoghi e usanze della nostra terra sono un caratteristica verace del film. "Amo la mia terra ma non sono cieco. E una storia raccontata in modo semplice, ma, nel piccolo, abbiamo usato anche noi i nostri effetti speciali, per quello che potevamo economicamente, ma soprattutto culturalmente. Credo che ognuno di noi riceva in dono alla nascita una specie di piccolo teatrino con tre o quattro fondali da cambiare. Io ho avuto questi fondali, questi paesaggi, questa terra che cerco di raccontare. Anghelopoulos dice che bisogna raccontare i propri luoghi per essere realmente internazionali, ed io credo abbia in qualche modo ragione. A me piace sentire che un film si identifica in una terra. La storia è quella di due poveri disgraziati che cercano di adeguarsi ad uno status economico che è fuori dalla loro portata. Padova da sola fattura quasi come tutto il Portogallo, è una città agiata, ma proprio per questo senza schei non sei nessuno. È il famoso miracolo del Nord-est: in questa terra ricca che è il Veneto, quello su cui è opportuno interrogarsi è il prezzo che abbiamo pagato per tutto questo. Volevo raccontarlo, senza fare sociologia, ma restando aderente ad un vissuto quotidiano che si va perdendo. Io come Willy, il protagonista, mi sento rinfrancato, rappacificato nella quiete della laguna, ma la vita vera della gente è quella delle strade, dei bar. Di queste realtà si perde il contatto se si sta chiusi in casa davanti alla televisione…"
Poca sociologia, ma una tensione etica all'antica quella che vibra insomma in questa commedia agrodolce: "Nei miei personaggi credo ci sia una certa grazia che nasce dalla loro ingenuità, dalla mancanza di furbizia. Il loro gesto viene a destabilizzare una situazione, si configura in qualche modo come un atto di sovversione in una realtà ovattata tra cinismo e ricchezza. Il furto, proprio della lingua, ha evidentemente anche un valore simbolico. In una dimensione culturale in cui è difficile ristabilire l'equilibrio dei veri valori, la vena affabulatoria di Willy, la sua serenità nel sapersi raccontare, può essere una prima rivincita."

e.l. - La Difesa del Popolo - 1 ottobre 2000