La Dea del '67 (Goddess of 1967)
Clara Low - Australia 2000 - 1h 58'

da Film Tv (Alberto Crespi)

Forse il giapponese che arriva in Australia per acquistare una Citroen DS del 1967, e scopre con occhio vergine il continente nuovissimo, è la stessa Clara Law: 46 anni, si è imposta lungo gli Anni ’80 come una delle più interessanti registe di Hong Kong (più "autrice", meno eclettica della veterana Ann Hui) e dal ’95 si è trasferita a Melbourne. La sua storia incrocia continenti, memorie, culture. Il giapponese JM sbarca in Australia per acquistare un auto-feticcio - la "Dea" del titolo - e scopre che il venditore ha massacrato a fucilate se stesso e la moglie. Sul luogo del delitto c’è BG (tutti hanno nomi che sembrano targhe...) una ragazza cieca che lo trascina, a bordo della DS, in una peregrinazione nell’Australia rurale che è anche un viaggio a ritroso nel tempo. Partiti da Tokyo e dall’anonimo presente di JM, scopriamo il passato violento di BG. Il film ha immagini abbaglianti e ritmo a strappi, ora sospeso, ora accelerato. Clara Law ci porta su un pianeta alieno. Il suo è il vero Mission to Mars australiano di fine millennio.

da La Stampa (Lietta Tornabuoni)

Un giovane dandy giapponese, ladro elettronico, collezionista di serpenti e altri rettili, noto soltanto con le iniziali JM, arriva in Australia con 40.000 dollari per perfezionare un acquisto fatto su Internet: un’automobile d’epoca da lui adorata, una Citroën DS (in francese si pronuncia déesse, in inglese si dice Goddess, ossia dea) del 1967, color salmone. Ma il venditore è morto. Una ragazza cieca di diciassette anni, nota soltanto con le iniziali BG, dice di poterlo condurre dal nuovo proprietario dell’auto. Partono. Vanno per il deserto australiano brullo e costellato di morte città minerarie. Il percorso desolato e strano, anche attraverso il passato incestuoso e il presente assassino della ragazza, compone il film: bellissimo, misterioso. Clara Law, la regista di 47 anni, nata a Macao, cresciuta a Hong Kong, operante in Australia, moglie di Eddie L. C. Fong, è straordinariamente brava. Ogni dettaglio del film condensa il mix più contemporaneo di confusione, spavento, indefinita speranza. Ogni abbraccio tra i due ragazzi non è una stretta erotica anche se lo sembra: è una ricerca affamata, esultante e triste di protezione, di tenerezza, è desiderio di vicinanza e di rifugio, delicatezza, malinconia. E’ perfetto lo stile del racconto, non fluido ma frammentato in attimi esemplari, non cronologico ma sussultante nel tempo («tre anni prima», «trent’anni prima»). Anche se nel film non mancano lungaggini, salti logici, un finale sciagurato, persino gli incesti padre-figlia e nonno-nipote esprimono una sofferenza stoica senza volgarità, senza ambiguità; i due protagonisti, ben diretti, recitano con uno sfinimento e una libertà che ha fatto vincere a Rose Byrne il premio destinato alla migliore attrice all’ultima Mostra di Venezia. Ricco di quell’eleganza dello squallore così attuale, intitolato a uno di quegli oggetti che paiono l’unica forma di ricchezza a tanti ragazzi del Duemila, pervaso da un senso di enigma e di paradosso, La Dea del ’67 non è un film facile, non somiglia a nessun altro: ma se si riesce a immergervisi si scopre quanto il cinema possa essere profondo, nuovo, struggente.

LUX febbraio 2001

per tamburini... Una produzione anglo-giapponese per un surreale il gioco visivo che ha come spunto la mitica Citroen Pallas  e che dipana un intrigante confronto esistenziale tra due indimenticabili protagonisti: lui, giapponese, eclettico collezionista d'auto e pirata informatico, lei presenza enigmatica anche per l'handicap della sua cecità. Il tutto su un impianto on the road a cui l'Australia dona una paesaggistica affascinante e che la regia sa inframmezzare con insert dedicati alla dea del titolo (la Pallas ovviamente) e corroborare con un sonoro di vibrante modernità