Gli spietati (Unforgiven)
Clint Eastwood - USA 1992 - 2h 10'

miglior FILM
miglior regista (CLINT EASTWOOD)
miglior attore non protagonista (GENE HACKMAN)
miglior montaggio (JOEL COX)

da Dizionario dei film (a cura di Paolo Mereghetti)

   Per vendicare lo sfregio di una compagna, un gruppo di prostitute mette una taglia sui responsabili: si fanno avanti in molti, tra cui un ex killer, William Munny (Clint Eastwood), che si è ritirato a vita privata ma ha bisogno di danaro per mantenere i figli. Con il ragazzino che ha fatto da intermediario e l'amico nero (Morgan Freeman), Munny parte per la spedizione punitiva, ma lo sceriffo del paese (Gene Hackman), che aveva già stabilito un'ammenda per il colpevole, non tollera che qualcun altro possa esercitare la giustizia al suo posto...

    Il tredicesimo western di Eastwood assomiglia molto di più ad una tragedia: la fortuna ha girato le spalle agli eroi, il coraggio, l'abilità, la spavalderia sembrano non essere mai esistite e i grandi temi del genere - la morale, l'azione, la solitudine del cowboy - sono decantati, raffrenati, spogliati di ogni romanticismo o mitologia. In Gli spietati "il passato non è più memoria, ma ossessione, il modo non è scontro leale ma cinismo, lo sguardo non è western, ma noir, il protagonista non è esempio ma disperazione". E il film non è più solo avventura, ma angosciata riflessione sul Tempo e sulla Storia.
      La sceneggiatura di David Webb Peoples risale a circa quindici anni prima e in origine era stata opzionata da Francis Ford Coppola. Il tema musicale dedicato alla moglie di Munny è stato composto da Eastwood.

da Il Sole 24 Ore (Roberto Escobar)

     Clint Eastwood non pretende di disseppellire un cadavere. Il suo film è grande perché si colloca dopo: dopo che il mito s'è fatto nostalgia. Prima di Gli spietati - che ha il titolo di un western del 1960 ( The Unforgiven, John Huston; in italiano Gli inesorabili) -lo stesso ha fatto Fango, sudore e polvere da sparo (Dick Richards, 1972). Entrambi stanno in splendido equilibrio sulla linea che separa e unisce il disincanto della verità storica e il rimpianto della menzogna mitica. Nella storia di Munny - eroe che non è più eroe essendo diventato morale - di Little Bill, di English Bob e dei tanti altri personaggi mitici, Eastwood film successivo in archivio si cura di mettere cenni a tutta la tradizione western. C'è qualcosa di classico: il dialogo tra Munny e la prostituta, per esempio, cita Ombre rosse (John Ford, 1939). C'è qualcosa di ironico: stilemi di Leone, soprattutto. C'è qualcosa di storico: rifacimenti accurati di luoghi, atmosfere, paesaggi. Mescolando tutto questo, Gli spietati segue il Lawrence Kasdan di Silverado (1985), ricostruzione spielberghiana - dunque, "postmoderna" e iperbolica - del mito. Ma è a Fango, sudore e polvere da sparo, appunto, che il film più s'avvicina, soprattutto nella sua ultima parte. Di Little Bill, di English Bob e di Munny, Eastwood ci dimostra la "verità". Nei primi due il mito è dissolto ai nostri occhi. La "magnanimità" è spiegata, e così è demistificata. Il megalopsychos non è che un ubriacone, un violento, un venale. Nel terzo, addirittura, il mito è dissolto ai suoi stessi occhi: un eroe convertito è un ex eroe, un'ombra patetica, un banale uomo quotidiano. Come è potuto nascere il mito da uomini tanto prosaicamente simili a noi? Il film dà due risposte: una discorsiva, storica; l'altra splendidamente mitica. La prima suona pressappoco così: è stato il racconto - mythos, appunto - che ha trasfigurato nel nostro immaginario quegli uomini, portandoli fuori del tempo e della morale. Da questo punto di vista, il personaggio centrale di Gli spietati è lo scrittore, il biografo infedele che non documenta ma crea falsificando. Questo ha fatto il cinema western, insieme con il romanzo: ha creato falsificando (come dice Blake Edwards in Intrigo a Hollywood, 1988). E poi c'è la risposta mitica, commossa come quella data nel film di Richards (che pure demistifica ancora di più). C'è in Munny - come anche in Little Bill e in English Bob - qualcosa che non si può dimostrare, ma solo mostrare e raccontare, qualcosa che sfugge al nostro discorso quotidiano. Come Achille per la morte di Patroclo o come Aiace per le armi truffate da Odisseo, Munny si infuria. Il suo furore, il suo pathos infrange i confini del tempo e della morale, e riapre lo spazio del mito. Perché? Perché è questa la natura di un eroe. La risposta non ci soddisfa? Non è suo compito. Ci soddisfa invece la gioia ingenua, autoevidente in cui il furore ci riporta. Ci godiamo queste ultime immagini - classiche e mitiche - come se ancora il cinema fosse «ai vecchi tempi».


cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2005