Per vendicare lo sfregio di una compagna, un gruppo di
prostitute mette una taglia sui responsabili: si fanno avanti in molti,
tra cui un ex killer, William Munny (Clint Eastwood), che si è ritirato a
vita privata ma ha bisogno di danaro per mantenere i figli. Con il
ragazzino che ha fatto da intermediario e l'amico nero (Morgan Freeman),
Munny parte per la spedizione punitiva, ma lo sceriffo del paese (Gene
Hackman), che aveva già stabilito un'ammenda per il colpevole, non tollera
che qualcun altro possa esercitare la giustizia al suo posto... |
Il
tredicesimo western di Eastwood assomiglia molto di più ad una tragedia:
la fortuna ha girato le spalle agli eroi, il coraggio, l'abilità, la
spavalderia sembrano non essere mai esistite e i grandi temi del genere -
la morale, l'azione, la solitudine del cowboy - sono decantati,
raffrenati, spogliati di ogni romanticismo o mitologia. In
Gli
spietati
"il passato non è più memoria, ma ossessione, il modo non è scontro leale
ma cinismo, lo sguardo non è western, ma noir, il protagonista non è
esempio ma disperazione". E il film non è più solo avventura, ma
angosciata riflessione sul Tempo e sulla Storia.
La sceneggiatura di David Webb Peoples
risale a circa quindici anni prima e in origine era stata opzionata
da Francis Ford
Coppola. Il tema musicale dedicato
alla moglie di Munny è stato composto da Eastwood.
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Clint
Eastwood non pretende di disseppellire un cadavere. Il suo film è grande
perché si colloca dopo: dopo che il mito s'è fatto nostalgia. Prima di
Gli spietati
- che ha il titolo di un western del 1960 (
The Unforgiven, John Huston; in
italiano
Gli inesorabili) -lo stesso ha fatto
Fango, sudore e polvere da sparo
(Dick Richards, 1972). Entrambi stanno in splendido equilibrio sulla linea
che separa e unisce il disincanto della verità storica e il rimpianto
della menzogna mitica. Nella storia di Munny - eroe che non è più eroe
essendo diventato morale - di Little Bill, di English Bob e dei tanti
altri personaggi mitici, Eastwood
si cura di mettere cenni a tutta la tradizione western. C'è qualcosa di
classico: il dialogo tra Munny e la prostituta, per esempio, cita
Ombre rosse
(John Ford, 1939). C'è qualcosa di ironico: stilemi di Leone, soprattutto.
C'è qualcosa di storico: rifacimenti accurati di luoghi, atmosfere,
paesaggi. Mescolando tutto questo,
Gli
spietati
segue il Lawrence Kasdan di
Silverado
(1985), ricostruzione spielberghiana - dunque, "postmoderna" e iperbolica
- del mito. Ma è a
Fango, sudore e polvere da sparo,
appunto, che il film più s'avvicina, soprattutto nella sua ultima parte.
Di Little Bill, di English Bob e di Munny, Eastwood ci dimostra la
"verità". Nei primi due il mito è dissolto ai nostri occhi. La
"magnanimità" è spiegata, e così è demistificata. Il megalopsychos non è
che un ubriacone, un violento, un venale. Nel terzo, addirittura, il mito
è dissolto ai suoi stessi occhi: un eroe convertito è un ex eroe, un'ombra
patetica, un banale uomo quotidiano. Come è potuto nascere il mito da
uomini tanto prosaicamente simili a noi? Il film dà due risposte: una
discorsiva, storica; l'altra splendidamente mitica. La prima suona
pressappoco così: è stato il racconto - mythos, appunto - che ha
trasfigurato nel nostro immaginario quegli uomini, portandoli fuori del
tempo e della morale. Da questo punto di vista, il personaggio centrale di
Gli spietati è lo scrittore, il biografo infedele che non documenta ma
crea falsificando. Questo ha fatto il cinema western, insieme con il
romanzo: ha creato falsificando (come dice Blake Edwards in
Intrigo a Hollywood, 1988). E poi c'è la
risposta mitica, commossa come quella data nel film di Richards (che pure
demistifica ancora di più). C'è in Munny - come anche in Little Bill e in
English Bob - qualcosa che non si può dimostrare, ma solo mostrare e
raccontare, qualcosa che sfugge al nostro discorso quotidiano. Come
Achille per la morte di Patroclo o come Aiace per le armi truffate da
Odisseo, Munny si infuria. Il suo furore, il suo pathos infrange i confini
del tempo e della morale, e riapre lo spazio del mito. Perché? Perché è
questa la natura di un eroe. La risposta non ci soddisfa? Non è suo
compito. Ci soddisfa invece la gioia ingenua, autoevidente in cui il
furore ci riporta. Ci godiamo queste ultime immagini - classiche e mitiche
- come se ancora il cinema fosse «ai vecchi tempi». |