miglior FILM miglior regista (CLINT EASTWOOD) miglior attore non protagonista (GENE HACKMAN) miglior montaggio (JOEL COX) |
da Dizionario dei film (a cura di Paolo Mereghetti) |
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Il
tredicesimo western di Eastwood assomiglia molto di più ad una tragedia:
la fortuna ha girato le spalle agli eroi, il coraggio, l'abilità, la
spavalderia sembrano non essere mai esistite e i grandi temi del genere -
la morale, l'azione, la solitudine del cowboy - sono decantati,
raffrenati, spogliati di ogni romanticismo o mitologia. In
Gli
spietati
"il passato non è più memoria, ma ossessione, il modo non è scontro leale
ma cinismo, lo sguardo non è western, ma noir, il protagonista non è
esempio ma disperazione". E il film non è più solo avventura, ma
angosciata riflessione sul Tempo e sulla Storia. |
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da Il Sole 24 Ore (Roberto Escobar) |
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Clint Eastwood non pretende di disseppellire un cadavere. Il suo film è grande perché si colloca dopo: dopo che il mito s'è fatto nostalgia. Prima di Gli spietati - che ha il titolo di un western del 1960 ( The Unforgiven, John Huston; in italiano Gli inesorabili) -lo stesso ha fatto Fango, sudore e polvere da sparo (Dick Richards, 1972). Entrambi stanno in splendido equilibrio sulla linea che separa e unisce il disincanto della verità storica e il rimpianto della menzogna mitica. Nella storia di Munny - eroe che non è più eroe essendo diventato morale - di Little Bill, di English Bob e dei tanti altri personaggi mitici, Eastwood si cura di mettere cenni a tutta la tradizione western. C'è qualcosa di classico: il dialogo tra Munny e la prostituta, per esempio, cita Ombre rosse (John Ford, 1939). C'è qualcosa di ironico: stilemi di Leone, soprattutto. C'è qualcosa di storico: rifacimenti accurati di luoghi, atmosfere, paesaggi. Mescolando tutto questo, Gli spietati segue il Lawrence Kasdan di Silverado (1985), ricostruzione spielberghiana - dunque, "postmoderna" e iperbolica - del mito. Ma è a Fango, sudore e polvere da sparo, appunto, che il film più s'avvicina, soprattutto nella sua ultima parte. Di Little Bill, di English Bob e di Munny, Eastwood ci dimostra la "verità". Nei primi due il mito è dissolto ai nostri occhi. La "magnanimità" è spiegata, e così è demistificata. Il megalopsychos non è che un ubriacone, un violento, un venale. Nel terzo, addirittura, il mito è dissolto ai suoi stessi occhi: un eroe convertito è un ex eroe, un'ombra patetica, un banale uomo quotidiano. Come è potuto nascere il mito da uomini tanto prosaicamente simili a noi? Il film dà due risposte: una discorsiva, storica; l'altra splendidamente mitica. La prima suona pressappoco così: è stato il racconto - mythos, appunto - che ha trasfigurato nel nostro immaginario quegli uomini, portandoli fuori del tempo e della morale. Da questo punto di vista, il personaggio centrale di Gli spietati è lo scrittore, il biografo infedele che non documenta ma crea falsificando. Questo ha fatto il cinema western, insieme con il romanzo: ha creato falsificando (come dice Blake Edwards in Intrigo a Hollywood, 1988). E poi c'è la risposta mitica, commossa come quella data nel film di Richards (che pure demistifica ancora di più). C'è in Munny - come anche in Little Bill e in English Bob - qualcosa che non si può dimostrare, ma solo mostrare e raccontare, qualcosa che sfugge al nostro discorso quotidiano. Come Achille per la morte di Patroclo o come Aiace per le armi truffate da Odisseo, Munny si infuria. Il suo furore, il suo pathos infrange i confini del tempo e della morale, e riapre lo spazio del mito. Perché? Perché è questa la natura di un eroe. La risposta non ci soddisfa? Non è suo compito. Ci soddisfa invece la gioia ingenua, autoevidente in cui il furore ci riporta. Ci godiamo queste ultime immagini - classiche e mitiche - come se ancora il cinema fosse «ai vecchi tempi». |
cinélite TORRESINO all'aperto: giugno-agosto 2005