Jafar Panahi, lo schermo prigioniero |
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pellicole all'attivo, 6 anni di carcere da
scontare. Se l'arte cinematografica si deve rapportare con le pene
"politiche" Jafar
Panahi sarebbe in credito di un
film, anche se dall'anno della sua incriminazione (2010) ha trovato il
modo di realizzare (con l'aiuto dell'amico Mojtaba Mirtahmasb) un
documentario,
This is not a film, che rende conto della snervante attesa
per l'esito della sua vicenda giudiziaria (conclusasi nel dicembre dello
stesso anno con la condanna di detenzione e la preclusione a dirigere,
scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste sia all'estero
che all'interno dell'Iran per 20 anni…)
This
is not a film presentato a
Cannes non è ancora disponibile in Italia, ma gli altri lavori di Panahi
sono recuperati in questa retrospettiva che parte da
Il
palloncino bianco, esordio a
Cannes del 1995 e insignito della Camera d'Or; primo riconoscimento in una
carriera cadenzata da costanti presenze ai grandi festival e dai relativi
premi:
Lo specchio (1997, Pardo d'Oro
a Locarno), Il
cerchio (Leone d'oro a Venezia nel
2000), Oro rosso
(2003, Premio della Giuria al Cerain Regard di Cannes) e infine
Offside,
del 2006, insignito del Gran Premio della Giuria a Berlino.
Ma quali le colpe, per il governo Iraniano, di questo cinquantaduenne
discepolo di
Kiarostami (ne fu assistente nel 1994 per Sotto gli ulivi, lo
ha avuto come sceneggiatore in due film), quali le "inopportune"
testimonianze d'autore che l'hanno reso inviso al regime? In primis
certamente la partecipazione ai movimenti di protesta contro Ahmadinejad
del marzo 2010 a Teheran, ma tutta la sua opera cinematografica è un
aperto atto di denuncia contro le vessazioni democratiche che il suo
popolo ha dovuto e deve subire. Dall'indigenza "poetica" della piccola
Razieh, che ricerca con cocciutaggine il suo pesciolino rosso ne
Il palloncino bianco,
all'ibrido di fiction e di presa diretta (Lo
specchio) in cui la piccola
Mina Mohammadkhani, già interprete del film precedente, vaga per Teheran
alla scoperta di un'ingenuità di rappresentazione tra neorealimo d'autore
e sguardo d'infanzia.
L'arguzia formale e tematica de Il cerchio
ben inquadra poi l'evoluzione registica di Panahi e la morsa in cui è
stretta la condizione femminile: un approccio circolare che struttura
montaggio, muove la macchina da presa e avviluppa le donne protagoniste,
rassegnate e ribelli insieme. E se con
Oro rosso
la violenza irrompe quale inesorabile sbocco di una frustrazione sociale
portata all'esasperazione (la misera esistenza di Hussein, pony-express
pizzaiolo, messa a confronto con le contraddizioni islamiche della ricca
borghesia!), in Offside
(2006) è attraverso il tifo calcistico, coagulo di entusiasmi e contrasti,
che riaffiora, ancora una volta, la marginalità democratica della realtà
femminile iraniana.
Una filmografia, quella di Jafar Panahi, che non si sottrae mai, anche nei
toni della commedia, ad una circostanziata denuncia dell'emergenza
politica del suo paese. Rivedere e ripensare il suo cinema è un esercizio
di indagine metodologica e di pratica civile.
ezio leoni
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TORRESINO/LUX/sede febbraio-maggio 2012 |
Il palloncino bianco
(Badkonak-esefid)
Jafar Panahi,
Iran 1995 – 1h 25’ |
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Caméra d’or |
Il
21 marzo in Iran si festeggia il capodanno e in quell’occasione, come
augurio per il futuro, i bambini espongono un pesciolino rosso in una
boccia di vetro. Razieh (Mina Mohammadkhani) ne vuole assolutamente uno
nuovo, nonostante la vasca del giardino ne sia già piena. Cocciuta e
insistente riesce a convincere la madre a darle la sua ultima banconota e
corre a comprarlo, ma nelle strade affollate della capitale finisce per
perdere il denaro, portato dal vento in un tombino: nel tentativo di
recuperarlo, la bambina farà molti incontri e imparerà a conoscere un po’
di più il mondo. Un racconto morale filtrato dall’esistenza di
Kiarostami
(autore della sceneggiatura), messo in scena in tempo reale, pieno di
personaggi presi direttamente dalla realtà (i due incantatori dì serpenti,
il sarto, il militare in libera uscita, il venditore afgano di palloncini)
per «aprire gli occhi anche su quello che non è bello da vedere».
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Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti |
Lo specchio
(Ayneh)
Jafar Panahi,
Iran 1997 – 1h 35’ |
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Pardo d'oro |
A
Teheran una bambina non trova sua madre all'uscita dalla scuola. Il film
racconta come torna a casa, sola. Ma in autobus la bambina (è, con due
anni in più, la stessa interprete di Il
palloncino bianco) si stufa di recitare, si toglie il velo e il
finto gesso dal braccio e se ne va, dimenticandosi di avere addosso il
microfono. Il regista decide di seguirla a sua insaputa. Il film
ricomincia. Allievo di
Abbas
Kiarostami,
Panahi (1960) fa una deliziosa variazione su due temi di base del cinema
iraniano: i bambini e il cinema nel cinema. Attraverso i bambini e il loro
sguardo “ingenuo” si possono aggirare i veti della censura, togliendo il
velo alla realtà sociale. Col secondo espediente si mette in discussione
lo statuto della fiction e del cinema in presa diretta sulla vita per la
strada. “Non succede niente”, ma intenerisce, diverte, commuove, incanta e
fa pensare. |
Il Morandini - Dizionario dei Film |
Il cerchio
(Dayereh)
Jafar Panahi,
Iran/Italia 2000 – 1h 31’ |
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Leone d'oro
premio Fipresci |
Un
titolo che è un’evidente metafora visto che il film inizia con un
sportellino che si apre su una sala parto e si chiude, in analogia, con il
chiudersi dello sportellino di una cella. La nascita è quella di un
bambina, in carcere finiscono alcune donne. La loro odissea è cupa e senza
speranza. Escono di prigione ad inizio pellicola, non possono che tornarci
alla fine. Le città, le strade sono pattugliate, ma non è un problema di
crimini commessi, ciò che anche Il cerchio descrive, è la colpa di essere
donna in una società maschilista e oppressiva. Quello di Panahi è un
pedinamento realistico e partecipe, il ritmo non è certo quello
hollywoodiano ma il puzzle di queste figure segnate dal destino, sorrette
da un’esemplare forza d’animo ha un respiro civile e cinematografico che
lascia il segno. Il movimento circolare che nell’ultima sequenza abbraccia
tutte le protagoniste nella penombra della cella non è solo un ribadire il
titolo, è un simbolico abbraccio di solidarietà di un regista uomo alle
donne del suo paese. |
Ezio Leoni -
TNE: Occhio Critico |
Oro rosso
(Talaye
sorkh)
Jafa Panahi,
Iran/Francia/Italia 2003 – 1h 35’ |
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Premio della Giuria al Certain Regard |
Pochissimi
possono vantare un curriculum come quello di Jafar Panahi, che con i primi
tre film, fra il 1995 e il 2000, ha collezionato un premio internazionale
più prestigioso dell'altro.
Oro rosso
conferma l'indubbio talento del cineasta iraniano; e il magistero di
Abbas
Kiarostami, che ha sceneggiato il film ispirandosi a un fatto di cronaca,
nel rispecchiare sempre nuovi aspetti della realtà del suo paese. Si parte
da una rapina fallita, che Panahi racconta con la macchina da presa fissa
a inquadrare dall'interno l'ingresso di una gioielleria e sullo sfondo la
strada. Insieme al negoziante entra un tipo armato che gli intima di
tirare fuori i preziosi. Intanto sopraggiunge una cliente che fugge
chiedendo aiuto, scatta l'allarme, la saracinesca si chiude
automaticamente, il rapinatore intrappolato spara al commerciante e poi si
uccide. È una sequenza laconica, secca sulla quale si innesta un flashback
che si richiuderà circolarmente alla fine sulla scena iniziale. Fidanzato
con la sorella dell'amico Ali, il grosso (è sotto cura cortisonica) e
riservato Hussein consegna pizze a domicilio per una paga misera. Un
lavoro che ogni sera lo porta nei quartieri dei ricchi che vivono in un
altro modo. Esiste a Teheran una società alto borghese farisea che sfida
le rigide regole coraniche, veste alla moda occidentale, beve e balla
(cose proibite), può permettersi appartamenti lussuosissimi e costosi
gioielli. Sbirciare in quel mondo del quale non potrà mai far parte, crea
in Hussein un senso crescente di umiliazione che sfocia in un assurdo
gesto ribellistico. Recitato da non professionisti, ben girato e
modernissimo nei dialoghi,
Oro rosso
ci introduce in un universo islamico molto più complesso di come lo
immaginiamo; e facendo emergere dinamiche umane e sociali simili alle
nostre, in un momento tanto delicato dei rapporti fra mondo cristiano e
mussulmano aiuta a capire.
LUX
- giugno 2004
|
Alessandra Levantesi -
La Stampa |
Offside
Jafa Panahi,
Iran 2011 – 1h 28’ |
|
Orso d'argento (Gran Premio della Giuria) |
Una
partita di calcio coagula entusiasmi e contrasti: se fosse una pellicola
nostrana parleremmo di un delizioso affresco ritagliato dalla realtà. Ma
poiché è l'ultimo film girato da Jafar Panahi prima di cadere sotto la
scure del regime di Ahmadinejad, ecco che il quadro acquista ulteriori
valenze. Constatiamo infatti che alle donne è vietato entrare nell'Azadi
Stadium, dove Iran-Bahrein giocano per la qualifica ai Mondiali 2006. Non
rassegnandosi alla discriminazione sei giovani tifose cercano di forzare
il blocco, ma dovranno accontentarsi di seguire la gara di sguincio, fra
l'eco di grida e applausi. Finché per festeggiare la vittoria la gente
invade le strade, accomunando nella gioia maschi e femmine; e chissà
quanto avrà inquietato il potere l'immagine di questa folla felice, unita
e incontrollabile. |
Alessandra Levantesi Kezich -
La Stampa |
Se
volete sapere perché i film di Jafar Panahi fanno tanta paura al regime di
Teheran non perdete Offside, ultimo
lavoro firmato dal grande regista prima di finire agli arresti. Che non è
una cupa denuncia di orrori e soprusi, ma una commedia tonica e pungente,
dunque capace di far cadere le maschere del potere meglio di tanti film
impegnati. Facendo leva per giunta su uno spettacolo popolare come il
calcio, dunque sul divertimento, o meglio su quel diritto a divertirsi e a
stare insieme che il totalitarismo di Ahmadinejad usa non per unire e
pacificare ma per dividere e vigilare. [...] È un susseguirsi di
situazioni comiche quanto rivelatrici che mettono a nudo contraddizioni e
assurdità. Perché i soldati, che affacciandosi agli spalti tentano anche
una goffa cronaca in diretta del match, sanno di calcio assai meno delle
loro sorvegliate. E quando una di loro chiede di andare in bagno, le
coprono il volto con la foto di un calciatore perché nessuno scopra il suo
sesso (e deve anche tapparsi gli occhi per non leggere i graffiti
osceni...). Ma succede anche che l'anziano genitore, venuto a riprendersi
la figlia con la forza, la riconosca solo quando lei toglie il berretto e
rimette il cha-dor, in un gioco di maschere davvero vertiginoso. Fino a
quel gran finale che chiude a sorpresa su una nota di speranza. Sappiamo
com'è andata a finire poi, almeno per Panahi. Ma sappiamo anche che non
può finire così. |
Fabio Ferzetti -
Il Messaggero |
Nella
protagonista diretta en travesti allo stadio dove l'Iran si gioca i
Mondiali contro il Bahrein, Panahi fotografa un Paese sulla corsia di
sorpasso della contemporaneità e insieme fermo con le ruote bucate
dall'autoritarismo retrogrado. Un impasse, segnalato da luci d'emergenza
politica e civile che rischiarano continuità (attenzione al femminile) e
novità (comicità) del suo cinema. Da applausi. |
Federico Pontiggia -
Il Fatto Quotidiano |
cinema
invisibile
TORRESINO/LUX/sede
ottobre-dicembre 2011