Quello
di Berlino, si sa, è tra i grandi festival cinematografici
internazionali il più anticonformista, indipendente, politically
correct, libero da legami con le major statunitensi e dall’eccessivo
ossequio alla produzione internazionale. Ne fanno fede sessant’anni di
decisioni coraggiose, basti pensare, per limitarci a tempi recenti,
agli Orsi d’Oro a film “difficili” come
Cesare deve morire
dei fratelli Taviani o a
Il caso Kerenes
della nouvelle vague rumena.
E’ inoltre un festival decisamente politico, di sinistra, per non dire
terzomondista. Dichiara con orgoglio il direttore Kosslick “non ci
preoccupiamo solo di quello che succede sul tappeto rosso, ma anche di
quello che succede nel mondo”.
Ben venga dunque, con tutta la nostra approvazione ed affetto, l’Orso
d’Oro a
Jafar Panahi e al suo piccolo capolavoro
Taxi.
Impedito di lavorare per i prossimi venti anni (!), prigioniero in
casa, o comunque sotto stretta sorveglianza, il regista iraniano
riesce a far pervenire a Berlino un tenero esercizio di arguzia e
sensibilità; una lettera d’amore al cinema secondo la definizione del
direttore della giuria Darren Aronofsky.
Travestito da tassista, occhiali scuri e berretto a visiera, ci porta
in giro per la sua Teheran alla scoperta dei personaggi, dei drammi,
degli umori della sua gente e dei motivi appunto per cui a lui non è
permesso fare cinema! Ogni passeggero ci mostra una faccia della
multiforme realtà iraniana: c’è il dialogo tra due sconosciuti sulla
pena di morte per reati economici, il reduce da un incidente stradale
che tutto insanguinato pensa solo al testamento da fare in favore
della moglie, altrimenti l’eredità andrà ai fratelli! Ma c’è anche la
divertente figura di Omid, lo spacciatore di dvd contraffatti, amico e
fornitore dello stesso Panahi, fin dai tempi in cui questo era l’unico
modo in Iran per poter vedere i film di
Woody Allen (!).
Bellissima la figura della venditrice di rose, vecchia conoscenza di
Panahi, un’avvocatessa a cui il regime impedisce di esercitare. Sta
andando in carcere a visitare un’amica, la cui colpa è quella di aver
assistito ad una partita di volley maschile! Nelle sue parole: “anche
se ti liberano, sei sempre guardato a vista, l’intero paese non è
altro che un’immensa prigione”.
Ma dove il film raggiunge il suo climax di leggerezza ed efficacia è
quando entra nel taxi la nipotina Hana, dieci anni, aspirante regista
per un saggio scolastico. Macchina da presa alla mano, vorrebbe
riprendere tutto e tutti e tocca allo zio spiegarle cosa è meglio fare
o non fare, o meglio cosa è permesso o no filmare in Iran.
Ed ecco le regole dell’iranian film-making: evitare qualsiasi
forma di sordid realism, le donne sempre col velo, mai uomini con la
cravatta (se non nella parte del cattivo), personaggi positivi sempre
con nomi iraniani e via proibendo...
Accolto molto calorosamente dal pubblico,
Taxi,
nonostante un inaspettato finale evocatore di violenza, è più
divertente, a tratti gradevolissimo, rispetto agli altri due
illegal exports di cui Panahi si è reso colpevole:
This is Not a Movie e
Closed Curtains. Questo film è, oltre che
la sofferta testimonianza di Panahi (“io so fare solo questo,
lasciatemelo fare”), una grande lezione di cinema: se sai cosa
vuoi dire e sai come dirlo, il racconto cinematografico sgorga come
acqua di fonte. Non servono grandi star, costosi set, location e
budget milionari: bastano due cineprese sul cruscotto di una macchina!
Alla fine non ci sono credits: niente fotografo, costumista, tecnico
del suono. Solo lui, il tassista,ci mette la faccia e si assume i
rischi.
PS: nell’impossibilità per il vincitore di uscire dal suo
paese, l’Orso d’Oro è stato consegnato alla piccola, bravissima, Hana
Saeidi in un tripudio di lacrime e applausi.
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