Lei
è una casalinga, lui un agente di polizia, la figlioletta, piccola, va
all’asilo. Sembra una famiglia perfetta, in una città perfetta, in un
paese perfetto: la Germania dei nostri giorni. I due genitori si
amano, la piccola sembra serena, finché non compaiono in lei delle
piccole angosce: la notte il sonno non arriva, il papà si arrabbia, la
mamma sembra turbata.
È raro vedere film tanto incentrati sulla superficie del corpo quanto
The Police Officer’s Wife.
La scommessa di Philip Gröning
è però duplice: da un lato, le immagini in movimento ci mostrano ciò
che questi corpi fanno, cercando di definire, superficialmente, i
caratteri dei personaggi. Ma la narrazione, non convenzionale, non si
esaurisce qui: perché la regia suddivide il racconto in 59 capitoli,
separati da lunghe (o lunghissime) dissolvenze al nero. Durante quei
quadri oscuri, lo spettatore ha la possibilità di tuffarsi, con tutta
calma, all’interno delle superfici dei corpi, tentando di dare un
senso compiuto alle azioni che ha visto compiersi, così come alle
parole che ha ascoltato. La regia non si preoccupa di decifrare: sta
allo spettatore, mai come in questo film, completare ciò che ha visto,
secondo una tesi tipica di quella psicologia comportamentista che
riterrebbe la mente una scatola nera indecifrabile. È proprio lo
spettatore che finisce con l’interiorizzare, in questo modo, ciò che
vede, lasciandosi andare ad una narrazione che, in quasi centottanta
minuti di durata, trasporta all’interno di un mondo in cui le parole
possono solo sminuire la sofferenza indicibile di una tragedia
quotidiana: sul corpo della moglie del poliziotto cominciano a
comparire dei segni che sembrano lividi, prima di sfuggita, poi sempre
più numerosi. Forse, ci chiediamo, la famiglia non è così perfetta? Ed
è davvero unita? Cosa significano le parole "perfetto" e "unito"? Ed
il poliziotto è davvero così insensibile alle immagini di quotidiano
orrore che si ritrova davanti, o le trasforma dentro di sé in
qualcos’altro?
Sembra così semplice,
The Police Officer’s Wife,
ma è in realtà frutto di una costruzione talmente cesellata e
stratificata (del resto, otto anni lo separano dal film precedente di
Gröning,
Il grande silenzio) che è facilissimo
impoverirne il significato, non riconducibile, sicuramente, ad un
rigido determinismo. Forse è soprattutto un film che parla di quella
parte oscura che è dentro di noi, e lo fa essenzialmente basandosi
sulla forza di immagini drammaticamente criptiche, nel loro contenere
misteri che forse non saranno mai svelati. Come quella lugubre figura
di vecchio, anziano e solo, a cui sono dedicati alcuni capitoli
enigmatici del film, e che si muove in una vita squallida, in un tempo
lontanissimo, portando dentro di sé tutto il peso di una vita infelice
senza un perché.
Il Premio Speciale della Giuria assegnato a Venezia al film testimonia
che l’esperimento emotivo di Gröning
comunica, disturba ed emoziona in un modo non convenzionale, quanto
necessario.
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