La
sedia della felicità |
Una commedia svitata zeppa di figure strampalate e folgoranti. Uno sfrenato giallo comico, ispirato a un romanzo russo già usato fra gli altri da Mel Brooks. Ma soprattutto un'esilarante 'summa' del cinema di Carlo Mazzacurati, che dai tempi di Notte italiana, 1987, non ha mai smesso di cercare tesori nascosti nell'infinita provincia italiana. Crudele paradosso: il film più vitale della stagione lo ha fatto un regista scomparso nel frattempo. Che però qui trova una foga e insieme una grazia destinate a moltiplicare il divertimento e il rimpianto. La motivazione del Premio alla carriera assegnatogli dall'ultimo Festival di Torino parlava del suo amore per «i vizi e le intuizioni» di un popolo sempre più «confuso e disperato»: il nostro. Ma per Mazzacurati, qui più che mai, disperazione fa rima con azione. E i suoi personaggi non stanno mai fermi, come nelle grandi 'screwball comedies' anni 30. (....) maghi cialtroni, archiviste sadomaso, pescivendoli incomprensibili, anziane veggenti malate, banditori di aste tv, montanari pittori naif, quadri dipinti dai montanari naif, in un crescendo a cui partecipa con affetto mezzo cinema italiano (Albanese, Vukotic, Orlando, Bentivoglio, Citran...). Con una leggerezza che ignora la satira, palla al piede di tanti film nostrani, per rischiare la pura invenzione. Vedi l'epilogo, che insinua in tanta frenesia un brivido addirittura metafisico. Mai 'testamento' fu più scanzonato. E profetico, se davvero Mazzacurati voleva conciliare il senso di catastrofe, verso cui tutti stiamo correndo, con l'energia e la voglia di riscatto che nonostante tutto si sente in Italia. |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero
|
...Un autore che ha saputo raccontare il nord est come pochi altri e un film più estemporaneo degli altri, dettato dalla voglia di sorridere quasi "senza se e senza ma". Una favola moderna che ha il sapore della rimpatriata. Superficiale? Sì, ma non in senso dispregiativo. Del resto, lo sappiamo. Sotto la superficie dei film di Carlo Mazzacurati, c'è sempre qualcosa che brulica: un'umanità spiantata o l'anima nera di un nord est che non è più locomotiva ma vagone merci fermo su un binario abbandonato. Basta osservare meglio, oltre il pelo dell'acqua della laguna, quella che i ladri maldestri de La lingua del Santo attraversavano su una sampierota, in fuga dalle loro miserie; oppure oltre la corte di nebbia di Concadalbero, dove è più facile credere alla divisa rassicurante di un autista di autobus invece che alle mani sporche di grasso di un meccanico straniero. Questione di giuste distanze che Mazzacurati ha sempre misurato per raccontare le sue storie di anti-eroi che si muovono nella provincia di un Paese che rallenta, si ferma e, a volte, cade nel baratro. Ma altre volte sorride, come in una favola. Ed è quello che capita, per l'appunto, con La sedia della felicità, in cui i protagonisti, come spesso accade nei film di Mazzacurati, sono sempre gli ultimi. Perché certamente non sono primi né Bruna (Isabella Ragonese) né Dino (Valerio Mastandrea), lei estetista che non paga le rate dei lettini abbronzanti, lui tatuatore che fatica a passare gli alimenti mensili a moglie e figlio. Entrambi hanno a che fare con la pelle, con quella superficie che Mazzacurati ama osservare minuto dopo minuto sempre più in profondità , anche se nella sua ultima commedia lo sguardo non è più quello dell'entomologo, ma piuttosto quello trasognato del narratore di fiabe. Mazzacurati sottolinea le sue intenzioni già solo con la luce scintillante e un po' patinata nella quale immerge i suoi due picari moderni, protagonisti di una caccia al tesoro tra centri commerciali e cimiteri, pianura e montagna, orsi e cinghiali. Dentro all'improbabile sedia del titolo, zebrata e a forma di elefante, la mamma di un criminale (Katia Ricciarelli) ha nascosto dei preziosi gioielli. Bruna, che ha raccolto la confidenza della donna prima di morire,“ e Dino (coinvolto suo malgrado) partono alla ricerca degli otto esemplari del mobile, sulle cui tracce c'è anche un prete corpulento (Giuseppe Battiston) che vorrebbe quel tesoro per risolvere il problema della fame nel mondo (ma, come sempre, è solo l'epidermide di una realtà ben più viziosa). Prima di "elevare" i suoi protagonisti sulle Dolomiti, dove la caccia si trasforma in una parata regale sulla groppa di un asino, Mazzacurati si diverte a popolare i "suoi" paesaggi di provincia con tutti gli attori, vecchi e nuovi, che da sempre fanno parte del suo universo. Come Fabrizio Bentivoglio e Silvio Orlando, irresistibili mercanti d'arte di una tv locale (la loro apparizione è tanto breve quanto esilarante), e un "doppio" Antonio Albanese. Ma anche Roberto 'Bobo' Citran, pescivendolo ermetico sotto il salone di Palazzo della Ragione a Padova, Natalino Balasso e i suoi scagnozzi rumeni e tanti altri attori veneti: da Mirco Artuso (il suo dipinto "el me cagneto" sarà la chiave di volta della storia) a Stefano Scandaletti che parla in latino. Forse, a dirla tutta, un po' di brio in più non sarebbe guastato per una storia 'on the road' (scritta con Doriana Leondeff e Marco Pettenello) con tanti personaggi e situazioni che, alle volte, faticano a legarsi tra loro (mi riferisco, in particolare, agli sketch del mago e del fioraio un po' troppo televisivi e, non a caso, interpretati da due comici del piccolo schermo come Raul Cremona e Marco Marzocca). Per una volta, però, ci si accontenta della superficie e di un amore che sboccia ad alta quota, contemplando le vette anziché il fondale melmoso delle piccole miserie umane. Marco Contino - Il Mattino di Padova |
Quando Carlo Mazzacurati (scomparso il 22 gennaio scorso a 58 anni) ha girato questo film, l'estate scorsa, probabilmente sapeva che sarebbe stato il suo ultimo. La malattia che poi l'ha condannato aveva già dato segnali inequivocabili, nonostante la tenacia e il coraggio con cui il regista padovano l'aveva contrastata e la dedica «a Emilia e Marina» (cioè alla moglie e alla figlia) sono un'ulteriore prova della sua consapevolezza. Eppure La sedia della felicità ha poco del «film testamentario», se non il fatto che ripercorre una serie di temi centrali nella sua carriera di regista (ma proprio per questo non certo nuovi). Piuttosto, possiede una leggerezza e una delicatezza, autoironiche e vagamente malinconiche, che conquistano e affascinano, e si rivelano come la vera, preziosa «eredità» che ha voluto lasciarci. Soprattutto rispetto a un cinema italiano che oggi appare spesso o troppo vacuo o troppo pretenzioso. Non è così per questo film che recupera lo spunto del romanzo russo Le dodici sedie' di Il'ja Il'f e Evgenij Petrov (già portato al cinema da Nicolas Gessner e Mel Brooks) e lo declina all'interno di quella provincia veneta che da sempre ha accompagnato la sua carriera cinematografica. Lo ammetteva volentieri anche lo stesso regista di sentirsi spaesato al di fuori di quel mondo e di quella cultura. E non è un caso che dopo un inizio «romano» abbia - caso abbastanza unico in Italia - abbandonato la capitale del cinema per tornare a stabilirsi nella sua Padova (così come è significativo che il suo film più sincero e per alcuni più riuscito, Un'altra vita , racconti lo smarrimento di un non-eroe proprio di fronte alla scoperta del lato oscuro di Roma). Qui la «provincia» diventa una specie di atteggiamento mentale, un modo di vivere e di comportarsi che non ha bisogno delle tradizionali carrellate sulla campagna devastata dai capannoni industriali o sulle cartoline ricordo di angoli folcloristici. Si fa fatica a ritrovare Jesolo, da cui muovono i due protagonisti del film, o riconoscere i diversi luoghi delle loro peregrinazioni: la «provincia» di questo film è quella che stuzzica gli antropologi, quella dei modi di comportarsi, delle reazioni spesso fantasiose (e sempre divertenti) che ti mettono all'improvviso di fronte a un mondo che non avresti immaginato. (...) Il romanzo e le versioni cinematografiche precedenti giocavano molto del loro interesse sulle complicazioni della trama e della ricerca. Mazzacurati e i suoi cosceneggiatori, Doriana Leondeff e Marco Pettenello, puntano invece tutto sulle caratterizzazioni dei vari personaggi, specchi di un mondo «marginale» e «provinciale» (...) ma anche campioni di un'umanità sorprendentemente surreale, come i gemelli affidati a un doppio Antonio Albanese o i teleimbonitori Silvio Orlando e Fabrizio Bentivoglio (piccoli, esilaranti camei di attori che avevano interpretato in passato i film di Mazzacurati). Ne esce un viaggio che è solo apparentemente una ricerca del Graal con sfumature gialle; in realtà è il ritratto di un mondo che dietro le stranezze e le ridicolaggini mostra la faccia malinconica e umanissima di un'Italia dimenticata o relegata ai margini e che, però, possiede una sua dolcezza e una sua tenerezza pur nella stranezza e nell'incongruenza. Mazzacurati, attraverso la fotografia di Luca Bigazzi e la fiducia del produttore Angelo Barbagallo, filma ogni situazione con la comprensione «renoiriana» di chi sa che tutti hanno le loro ragioni. E lo fa con una leggerezza di tocco contagiosa e soprattutto fiduciosa nelle persone. Ottenendo di regalarci una commedia che per simpatia e originalità esce finalmente fuori dai «soliti» schemi, e insieme ci lascia il ritratto di un mondo dove - come fanno i due protagonisti - si può vivere senza abdicare al proprio ottimismo e alla propria generosità. |
Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera |
Un tesoro nascosto in una sedia, un'estetista e un tatuatore che, dandogli la caccia, si innamorano, un misterioso prete che incombe su di loro come una minaccia. Dapprima rivali, poi alleati, i tre diventano protagonisti di una rocambolesca avventura che, tra equivoci e colpi di scena, li vedrà lanciati all'inseguimento dai colli alla pianura, dalla laguna veneta alle cime nevose delle Dolomiti... Una commedia 'lieve', una fiaba senza capo né coda, indicativa di un sentimento che ha permeato tutta l'opera di Mazzacurati: di viva preoccupazione e di appassionata partecipazione ai guai delle persone e del mondo, ma anche di incrollabile fiducia nelle risorse umane. Un 'testamento' scanzonato: si può vivere senza abdicare al proprio ottimismo e alla propria generosità. |