Se
la scuola dei registi iraniani conosciuti in Italia ci ha abituati ad
un cinema improntato sulla poetica del realismo, il giovane Shahram
Mokri (1977), al suo secondo lungometraggio1,
sceglie una strada diversa, pur ispirandosi ad una storia realmente
accaduta.
Un gruppo di studenti, in campeggio nel nord dell'Iran per una gara di
aquiloni, incappa in tre cuochi dall'aspetto inquietante2, che
lavorano in un ristorante vicino e sono alla ricerca di carne da
cucinare. La didascalia iniziale fa riferimento alla storia vera della
scoperta di un ristorante, che serviva carne umana macinata.
Gli elementi in campo sono quelli tipici di un horror movie, ma
l'aspetto innovativo, che ha anche fruttato all'autore il premio per
il miglior contributo originale nella sezione Orizzonti, consiste nel
modo in cui Mokri ha scelto di raccontare la storia: attraverso un
unico lunghissimo (134 minuti)
piano
sequenza.
Grazie alle possibilità offerte dal digitale, senza stacchi di
montaggio, la macchina da presa segue via via i vari personaggi, gli
studenti, i cuochi e due strani gemelli vestiti di rosso, privi l'uno
del braccio destro e l'altro del sinistro, che si spostano dal
ristorante al bosco, al campeggio... in un movimento circolare, che
sembra circoscriverli all'interno di un ambiente minaccioso, dal quale
non possono uscire. Se gli aquiloni, al contrario evocano un'idea di
libertà, il film esce dai confini ristretti del genere e può essere
letto come una metafora di un paese che fagocita i propri giovani,
tarpandone le ali.
Apparentemente la macchina da presa, che insegue gli spostamenti dei
personaggi, attraverso il movimento nello spazio, crea anche uno
sviluppo temporale progressivo della vicenda, in realtà, man mano che
questa procede, lo spettatore avverte delle incongruenze temporali,
che fanno sì che la storia sembri avvitarsi su se stessa.
La sfida messa in campo da Mokri consiste infatti nel tentativo di
usare il piano sequenza non per produrre un effetto di realtà, ma al
contrario per rendere irreale ciò che viene ripreso, rompendo la
coincidenza tra piano spaziale e piano temporale, attraverso
l'introduzione di fessure temporali, che spostano le vicende, pur
nella continuità della ripresa, avanti e indietro nel tempo. Ce ne
accorgiamo in quei momenti in cui le parole di alcuni personaggi
vengono ripetute a distanza, come se fossero ascoltate da
un'angolatura auditiva diversa, ma che ci rivelano come il tempo,
nonostante la continuità del piano sequenza, sia tornato con un salto
indietro. La ragazza vestita di rosso, sdraiata sotto un albero con
uno dei cuochi che sta per ucciderla, nell'ultima sequenza, è forse
già morta, è un fantasma che rivede se stessa e ci racconta con la
forza delle parole ciò che non vedremo. Un lavoro quindi sullo spazio,
ma soprattutto sul tempo: un tentativo di sconvolgere l'idea di uno
sviluppo progressivo, che è intrinseco all'inquadratura.
L'effetto cercato da Mokri è quello di far muovere i personaggi, come
in un quadro di Escher, in cui non si capisce chi sta salendo e chi
sta scendendo le scale, in una sorta di lotta contro il tempo, dentro
il tempo, che finisce per mettere in discussione il concetto stesso di
tempo.
È
sicuramente apprezzabile la volontà di sperimentare nuove possibilità
espressive in uno dei più discussi codici linguistici del cinema, come
il piano sequenza, e l'esperimento si può dire in buona parte
riuscito, anche se, come sempre quando si fanno scelte così radicali,
si rischia di spostare l'attenzione dello spettatore su un unico
aspetto, a scapito di quello che è il senso complessivo di un film
comunque coinvolgente e interessante.
|