Miss Violence
è uno dei film rivelazione della settantesima edizione della Mostra
del cinema di Venezia, dove ha ricevuto due tra i premi più
importanti: il Leone D'argento per la miglior regia (Alexandros
Avranas, alla sua seconda opera) e la Coppa Volpi per la migliore
interpretazione al protagonista maschile Themis Panou.
Il film si apre con una banale festicciola di compleanno in un interno
piccolo borghese, che viene improvvisamente interrotta dal suicidio
della undicenne festeggiata. Di fronte alla scioccante tragedia la
famiglia reagisce inspiegabilmente con grande compostezza, cercando di
tornare immediatamente alla normalità. Mentre le autorità conducono le
indagini di rito, senza approdare ad alcun risultato, lo spettatore
vive la quotidianità del nucleo familiare, fino a scoprire nella
violenza che regna all'interno le ragioni del drammatico gesto...
Avranas sceglie di rappresentare la famiglia evidenziando innanzitutto
che si tratta di un universo chiuso. I suoi membri frequentano il
mondo esterno, hanno contatti con persone e ambienti diversi, ma
quando rientrano in casa si riadeguano immediatamente alle regole e
alle dinamiche che regnano all'interno. Quello che c'è fuori non
scalfisce quello che c'è dentro. Non a caso il film si apre con una
porta chiusa che si apre per farci penetrare in questo mondo a parte;
e si chiude con una porta che viene chiusa con un chiavistello,
lasciandoci fuori, ma soprattutto serrando all'interno il nucleo
familiare. E chi entra in casa, anche una semplice vicina, viene
sentita e trattata come un elemento estraneo da espellere.
Quello che il film rappresenta meglio è proprio la stretta rete di
regole e riti attraverso cui il padre ha imbrigliato sua moglie, le
sue figli, i suoi nipoti. Non si tratta di atti eclatanti: sono
piccole sfumature di oppressione e crudeltà nascoste in gesti
quotidiani, in parole dette con calma, in sguardi freddi, e,
soprattutto, in pesanti silenzi. In tutta la prima parte la regia
riesce a far percepire allo spettatore l'enorme violenza celata in
ogni atto, anche minimo, attraverso cui il padre domina tutti i membri
della famiglia: centrale è il controllo del cibo, che viene di volta
in volta pesato, negato, concesso. E non a caso i momenti in cui vi
sarà una reazione, all'inizio e alla fine del film, sono preceduti da
una elargizione di cibo, usato come esca o ricompensa.
La scelta di far emergere la violenza dalla routine si appoggia anche
sulla fotografia, che rende bene il grigiore della “normalità”, ma
soprattutto sull' interpretazione della figura del padre da parte di
Themis Panou, meritatamente premiato. È impressionante vedere come
quest'uomo così insignificante nel mondo esterno, mediocre nel lavoro,
sottomesso con l'autorità, rimanendo sostanzialmente identico prenda
il controllo nel suo “regno”.
Come Avranas ha sottolineato, si tratta di una storia universale,
tant'è vero che l'episodio di cronaca a cui è il film è ispirato è
accaduto in Germania, ma l'esigenza di raccontarla è anche legata alla
crisi sociale profonda che la Grecia sta vivendo: analizzare le
dinamiche di potere interne alla famiglia è un modo, continua il
regista, per evidenziare dei meccanismi che, a partire dalla sua
cellula prima, regolano un'intera società . E sceglie così di narrarci
un storia di miseria morale, di persone che sopportano passivamente
soprusi e violenza, perché in quella miseria morale sono immersi. Ma
attenzione al finale...
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