Chiunque
può sbagliare. Non si capisce infatti perché
Locke
di Steven Knight, uno dei film più sorprendenti visti a Venezia, sia
finito Fuori Concorso. Ma se a questo errore non c’è rimedio,
se non quello che prima o poi il film possa comunque uscire in sala,
per il peccato con cui deve fare i conti Ivan Locke, personaggio unico
e assoluto del film, esiste una destabilizzante strada per la
redenzione. Poco illuminata, lunga mezzo serbatoio di benzina,
dolorosissima e senza possibilità di inversione...
Meglio non aggiungere troppi dettagli nel raccontare cosa affronterà
Ivan Locke nel suo viaggio in autostrada per Londra, perché la
sceneggiatura, perfetta, scritta dallo stesso Knight - qui alla sua
seconda regia dopo Redemption, ma
noto soprattutto come autore raffinato di testi per il cinema, la
televisione e il teatro: suoi
La promessa dell’assassino di Cronenberg e
Piccoli
affari sporchi di Frears - si sviluppa sulla tensione della
rivelazione, frammento dopo frammento, delle reazioni e delle
motivazioni che una sola, determinata, decisione, provocherà nella
vita di un uomo. Un uomo che per deformazione professionale è abituato
a prendersi la responsabilità, a gestire le persone e risolvere
problemi, perché il suo compito è maneggiare un impasto mutevole come
il calcestruzzo e costruire edifici; e nel far questo molti pensano
sia il migliore di tutta l’Inghilterra.
Quando vediamo per la prima volta il viso di Locke, chiuso dentro
l’abitacolo della sua BMW, lui ha già fatto i conti con la propria
coscienza, gli rimane solo di comunicarlo agli altri, alle persone che
fanno parte della vita che con fatica ha fin lì costruito e che ora
sta abbandonando. Negli ottantacinque minuti (il film si sviluppa in
pratica in tempo reale, senza digressioni) che Locke impiegherà per
arrivare a destinazione - e in questo sta la vera sfida, vinta, del
film - non ci verrà mai concesso di lasciare la vettura in movimento,
e il crescendo emotivo sarà affidato solamente alla suspense cadenzata
dalle telefonate che dovrà affrontare il protagonista. Il telefono
diventa dunque l’unico altro elemento cardine presente nella messa in
scena, il fondamentale viatico che veicolerà il contrappunto della
tensione dialogica con l’esterno che va frantumandosi.
Le voci degli interlocutori, di cui non viene mostrata alcuna
immagine, rappresentano dunque un fuori campo necessario e ipotetico
con il quale Locke deve crudelmente raffrontarsi. Lui con calma e
metodo gestisce i problemi e le emozioni che ne conseguono, chiamata
dopo chiamata, e mette le fondamenta per un nuovo inizio. Anche qui
l’involucro automobilistico (come in
Cosmopolis e Holy Motors) assume
un ruolo centrale, protettivo, liberatorio quasi, e rivela quell’identità
addomesticata ma fertile, oltre la maschera che si è scelta di
assumere all’esterno, al di fuori di esso.
L’opera di Steven Knight si presenta come una sorta di road movie
anomalo, manipolato, in cui il protagonista non è in fuga per aver
commesso qualcosa di grave o verso un’illusione, ma al contrario va
verso la consapevolezza di una verità, la sua, l’unica dalla quale sa
di non potersi nascondere. Torna dunque la centralità del conflitto
morale (al quale è sottoposto anche lo spettatore) già presente in
Eastern Promises, e ancora una volta, senza alcuna pretesa di fornire
risposte o categorie indeclinabili.
Le straordinarie doti interpretative di Tom Hardy (Bronson,
Il
cavaliere oscuro - Il ritorno,
Inception, Tinker Tailor Soldier Spy,
Lawless) fanno il resto: qui, per la prima volta, si scrolla di dosso
la possanza del suo corpo e riesce unicamente con il volto a bulinare
il dilemma dell’essere umano: solo, impaurito, determinato, Locke
sperimenta la disperazione di un crollo, e l’azzardo di una nuova
ricomposizione.
L’eccezionalità di Locke, in definitiva, sta nel non compromesso della
sua idea. La forza della scrittura, di un montaggio sobrio ma
ricercato e di una fotografia che gioca nelle sfumature notturne e
negli abbagli dei fari delle macchine, sono determinanti per spazzare
via ogni possibilità di sopravvento della noia. Alla fine è nel
dolore, e con ogni probabilità nell’errore, che affonda
inevitabilmente ogni cambiamento di vita. Ma è da esso che Locke
riparte, e quel campo lunghissimo con cui ci lascia il film, non
risponde ad alcuna pacifica certezza se non a quella proprio
dell’autenticità della pena.
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