Tutto
il Medio Oriente in 81 minuti che scorrono senza stacchi, ipnotici ed
emozionanti, tra i vicoli di un rione di Jaffa, vicino Tel Aviv,
abitato da arabi e ebrei poveri. A farci scoprire questo luogo fuori
dal tempo, un po' come certe borgate di una volta (ma col carico
tragico del Medio Oriente addosso) è una giornalista che indaga su una
donna appena scomparsa. Un'ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, che avendo
sposato un arabo era sempre vissuta in quel mondo a parte, tra pecore,
galline, orti, carcasse d'auto. Ed ecco il vedovo, i suoi vicini, le
nuore, aprirsi pian piano in un alternarsi di aneddoti e ricordi resi
con emozione e pudore (dietro il film ci sono i molti documentari
girati da Gitai in quella zona, e si sente). E con quel talento per la
memoria collettiva che da sempre guida il lavoro di Gitai. Una
minuscola utopia realizzata, che colpisce davvero al cuore.
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Una
giovane giornalista israeliana, Yael (Yuval Scharf, stile modella),
raggiunge una bidonville di Jaffa per realizzare un reportage sulla
famiglia di una donna: morta da poco, era sopravvissuta all'Olocausto e
poi si era convertita all'Islam per sposare il palestinese Yussuf. Si
chiamava Hanna Klibanov, ma per tutti era divenuta Ana Arabia, ovvero
"io, l'araba". Un caso limite, mutuato da una storia vera, ma Gitai non
punta la camera sull'eccezionalità dell'exemplum, bensì sull'ordinaria
accettazione che l'ha accompagnato in vita: il marito, la figlia, la
nuora e i tanti vicini di quella bidonville-famiglia che siano le
divisioni del mondo là fuori, che siano l'odio, la violenza,
l'apartheid e il terrore proprio non lo sanno. Perché non lo vivono. In
quest'ottica, lo strano modus operandi della giornalista assume nuove
prospettive, ulteriore pregnanza: sostiene in nuce Gitai, la convivenza
di popoli, fedi, culture diversi non ha bisogno di scrittura, non ha
bisogno di farsi storia, bensì di apertura al dialogo, ascolto. La
Storia la scrivono i vincitori, e la mistificano tutti: sarà l'oralità
a salvarci, senza fissare su carta differenze, ostilità e distinguo?
Gitai ci crede, e affida
Ana Arabia a bocca e orecchio, chi parla e
chi segue, chi chiede e chi risponde: il taccuino può attendere, il
reportage di Yael non entrerà forse nei Meridiani, ma può levare i
paletti dalle coscienze, barattare la punteggiatura di mille trattati
di pace disattesi con la sintassi elementare dell'incontro, del farsi
prossimo. L'importante è recuperare la memoria, non per farne una retta
spezzata, ma una circonferenza, un anello impermeabile al vulnus
sociopolitico: la macchina da presa segue Yael per il cortile, dentro
gli appartamenti, sosta e procede con lei, perché il cinema, questo
cinema, non si muove senza l'umano, senza un cuore.
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...Ana Arabia,
punta magica nel concorso della scorsa Mostra del cinema di Venezia, (...)
si radica profondamente nella ricerca del regista che continua a
percorrere le contraddizioni del suo paese, Israele, lungo i bordi di
passato e presente, trasformandole in una scelta poetica e politica. Non
si tratta semplicemente di raccontare il «conflitto» tra Israele e
Palestina, lo sguardo di Gitai si spinge sempre più lontano in Europa e
nel mondo, un' «andata e ritorno» che interroga la Storia, e non per avere
un'unica risposta. Yael, giovane giornalista (la splendida Yuval Scharf)
arriva nell'enclave tra Jaffa e Bat Yam, in Israele, per intervistare
Youssef, il marito arabo di Hannah Kibanov, una donna ebrea divenuta
musulmana col nome di Siam Hassara. Vuole capire di più di quella vicenda
commuovente e strana, e come varca l'inquadratura che è la stretta soglia
di accesso al quartiere - confine invisibile e al tempo stesso netto - si
trova in un luogo altro. Nel cortile verde di limoni, piante, orti, tra le
abitazioni povere unite l'una all'altra da stretti passaggi scopre le
storie di Youssef, Miriam, Sarah, Walid, Jihad, e di molti altri; gli
amici, i vicini di casa, ognuno con i suoi sogni traditi, le sue gioie e
le sue amarezze, gli amori e i ricordi preziosi. Che si dipanano
lentamente, nel susseguirsi delle parole a cui è affidata la narrazione,
nei passaggi dagli uomini alle donne, quasi figure di un coro classico,
che Yael compie nel suo movimento. Sono arabi e ebrei che vivono insieme e
in pace da molti anni parlando le due lingue (...). Nel progetto iniziale
Gitai aveva pensato di girare a Oum El-Fahem, e di concentrare l'azione
intorno al personaggio di Hannah, la donna ebrea divenuta musulmana. Poi
c'è stata la scoperta di questo sobborgo precario, nascosto tra le colline
di Jaffa, quasi invisibile dall'esterno, dove i polli razzolano tra le
carcasse delle automobili e l'erba cresce selvaggia. Anche la storia è
cambiata, e il personaggio di Hannah, con la sua attrice (Nanna Laslo) è
sfumato nel volto di Sarah Adler (protagonista per Godard in
Notre Music), che interpreta sua figlia.
Mentre la storia di Hannah è divenuta, appunto, narrazione orale, quasi un
racconto da mille e una notte in cui balena anche l'epopea di uno schiavo
nero musulmano innamorato della padrona bianca, che per lei combatte i
nemici che vogliono farla prigioniera. Ho trovato qualcosa di incredibile
dice Yael al suo caporedattore. Qualcosa di incredibile come il dono di
parlare con gli altri e la scoperta dell'ospitalità. La macchina da presa
segue i personaggi, li carezza, quasi come in una danza, morbida, pudica,
rispettosa delle loro intimità. Gitai ha girato l'intero film, circa
un'ora e mezzo, in piano sequenza con una Alexa riflettendo lo sgranarsi
delle ore nei passaggi di luce che pian piano cambiano anche la
prospettiva dei personaggi, rendendoci testimoni oltreché spettatori della
nascita di un film. Non ci sono stacchi, e con questa «estremizzazione»
del suo amore per il piano sequenza, il suo sguardo «palestinizza» gli
israeliani e viceversa. Gitai è un regista con un potente senso della
messinscena, del cinema e dei suoi movimenti, ma come sempre nei suoi
lavori, questa scelta non è una semplice dichiarazione di estetica, e meno
che mai l'espressione di un autocompiacimento. Non si guarda filmare Gitai
né produce universi autoritari che impongono a noi spettatori una visione
del mondo, o la sua ideologia. Il suo cinema ha anticipato di decenni la
«confusione» tra finzione e documentario, saggio e poesia, rito e vita. E
la sua forza politica è proprio nella libertà radicale che oppone agli
schematismi in ogni scelta di regia, nel modo con cui interroga
costantemente l'immaginario. Lo spazio comune di un'utopia, anche se è
forse una piccola realtà, di vita insieme nel rispetto delle differenze
passa dunque nel flusso ininterrotto della macchina da presa. Un respiro
unico, che unisce i frammenti di un mondo separato senza soffocarne uno a
scapito dell'altro, ma lasciando a ciascuno il tempo necessario a
divenirne parte. La Storia, e la guerra quotidiana sono tracce
disseminate, accenni a qualcosa che appena oltre la soglia preme, ed è
gigantesco, divorante come lo skyline che ci rivela l'ultima inquadratura.
I grattacieli di un'occupazione che ha destinato un popolo a sparire,
condannando così anche l'altro. Nel suo piano sequenza Gitai lascia alla
parola la forza «transculturale» che l'immagine non illustra né asseconda.
Ascoltiamo i suoi personaggi parlare, voci di un altrove, di una
dissonante resistenza da inventare.
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