Ana Arabia
Amos  Gitai - Israele/Francia 2013 - 1h 21’

Venezia 70- Concorso


  Tutto il Medio Oriente in 81 minuti che scorrono senza stacchi, ipnotici ed emozionanti, tra i vicoli di un rione di Jaffa, vicino Tel Aviv, abitato da arabi e ebrei poveri. A farci scoprire questo luogo fuori dal tempo, un po' come certe borgate di una volta (ma col carico tragico del Medio Oriente addosso) è una giornalista che indaga su una donna appena scomparsa. Un'ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, che avendo sposato un arabo era sempre vissuta in quel mondo a parte, tra pecore, galline, orti, carcasse d'auto. Ed ecco il vedovo, i suoi vicini, le nuore, aprirsi pian piano in un alternarsi di aneddoti e ricordi resi con emozione e pudore (dietro il film ci sono i molti documentari girati da Gitai in quella zona, e si sente). E con quel talento per la memoria collettiva che da sempre guida il lavoro di film precedente in archivioGitaifilm precedente in archivio. Una minuscola utopia realizzata, che colpisce davvero al cuore.
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Fabio Ferzetti - Il Messaggero

  Una giovane giornalista israeliana, Yael (Yuval Scharf, stile modella), raggiunge una bidonville di Jaffa per realizzare un reportage sulla famiglia di una donna: morta da poco, era sopravvissuta all'Olocausto e poi si era convertita all'Islam per sposare il palestinese Yussuf. Si chiamava Hanna Klibanov, ma per tutti era divenuta Ana Arabia, ovvero "io, l'araba". Un caso limite, mutuato da una storia vera, ma Gitai non punta la camera sull'eccezionalità dell'exemplum, bensì sull'ordinaria accettazione che l'ha accompagnato in vita: il marito, la figlia, la nuora e i tanti vicini di quella bidonville-famiglia che siano le divisioni del mondo là fuori, che siano l'odio, la violenza, l'apartheid e il terrore proprio non lo sanno. Perché non lo vivono. In quest'ottica, lo strano modus operandi della giornalista assume nuove prospettive, ulteriore pregnanza: sostiene in nuce Gitai, la convivenza di popoli, fedi, culture diversi non ha bisogno di scrittura, non ha bisogno di farsi storia, bensì di apertura al dialogo, ascolto. La Storia la scrivono i vincitori, e la mistificano tutti: sarà l'oralità a salvarci, senza fissare su carta differenze, ostilità e distinguo? Gitai ci crede, e affida Ana Arabia a bocca e orecchio, chi parla e chi segue, chi chiede e chi risponde: il taccuino può attendere, il reportage di Yael non entrerà forse nei Meridiani, ma può levare i paletti dalle coscienze, barattare la punteggiatura di mille trattati di pace disattesi con la sintassi elementare dell'incontro, del farsi prossimo. L'importante è recuperare la memoria, non per farne una retta spezzata, ma una circonferenza, un anello impermeabile al vulnus sociopolitico: la macchina da presa segue Yael per il cortile, dentro gli appartamenti, sosta e procede con lei, perché il cinema, questo cinema, non si muove senza l'umano, senza un cuore.

Federico Pontiggia - Il Fatto Quotidiano

  Con Ana Arabia, presentato a Venezia, il regista israeliano Amos Gitai varia sul tema annoso della travagliata convivenza tra arabi ed ebrei, ponendo l'accento sull'enorme difficoltà, da parte dei palestinesi, di resistere all'espansione della città. Basato su una storia autentica, che restituisce nella forma del discorso orale, e realizzato in stile documentaristico, il film usa la metafora della coppia mista per parlare di un destino collettivo. Altrettanto metaforico è l'uso dell'unico piano-sequenza di 81' che 'lega' tra loro i sette incontri, alludendo alla necessità di unione e comprensione tra i due martoriati popoli.

  Roberto Nepoti - La Repubblica

   ...Ana Arabia, punta magica nel concorso della scorsa Mostra del cinema di Venezia, (...) si radica profondamente nella ricerca del regista che continua a percorrere le contraddizioni del suo paese, Israele, lungo i bordi di passato e presente, trasformandole in una scelta poetica e politica. Non si tratta semplicemente di raccontare il «conflitto» tra Israele e Palestina, lo sguardo di Gitai si spinge sempre più lontano in Europa e nel mondo, un' «andata e ritorno» che interroga la Storia, e non per avere un'unica risposta. Yael, giovane giornalista (la splendida Yuval Scharf) arriva nell'enclave tra Jaffa e Bat Yam, in Israele, per intervistare Youssef, il marito arabo di Hannah Kibanov, una donna ebrea divenuta musulmana col nome di Siam Hassara. Vuole capire di più di quella vicenda commuovente e strana, e come varca l'inquadratura che è la stretta soglia di accesso al quartiere - confine invisibile e al tempo stesso netto - si trova in un luogo altro. Nel cortile verde di limoni, piante, orti, tra le abitazioni povere unite l'una all'altra da stretti passaggi scopre le storie di Youssef, Miriam, Sarah, Walid, Jihad, e di molti altri; gli amici, i vicini di casa, ognuno con i suoi sogni traditi, le sue gioie e le sue amarezze, gli amori e i ricordi preziosi. Che si dipanano lentamente, nel susseguirsi delle parole a cui è affidata la narrazione, nei passaggi dagli uomini alle donne, quasi figure di un coro classico, che Yael compie nel suo movimento. Sono arabi e ebrei che vivono insieme e in pace da molti anni parlando le due lingue (...). Nel progetto iniziale Gitai aveva pensato di girare a Oum El-Fahem, e di concentrare l'azione intorno al personaggio di Hannah, la donna ebrea divenuta musulmana. Poi c'è stata la scoperta di questo sobborgo precario, nascosto tra le colline di Jaffa, quasi invisibile dall'esterno, dove i polli razzolano tra le carcasse delle automobili e l'erba cresce selvaggia. Anche la storia è cambiata, e il personaggio di Hannah, con la sua attrice (Nanna Laslo) è sfumato nel volto di Sarah Adler (protagonista per Godard in Notre Music), che interpreta sua figlia. Mentre la storia di Hannah è divenuta, appunto, narrazione orale, quasi un racconto da mille e una notte in cui balena anche l'epopea di uno schiavo nero musulmano innamorato della padrona bianca, che per lei combatte i nemici che vogliono farla prigioniera. Ho trovato qualcosa di incredibile dice Yael al suo caporedattore. Qualcosa di incredibile come il dono di parlare con gli altri e la scoperta dell'ospitalità. La macchina da presa segue i personaggi, li carezza, quasi come in una danza, morbida, pudica, rispettosa delle loro intimità. Gitai ha girato l'intero film, circa un'ora e mezzo, in piano sequenza con una Alexa riflettendo lo sgranarsi delle ore nei passaggi di luce che pian piano cambiano anche la prospettiva dei personaggi, rendendoci testimoni oltreché spettatori della nascita di un film. Non ci sono stacchi, e con questa «estremizzazione» del suo amore per il piano sequenza, il suo sguardo «palestinizza» gli israeliani e viceversa. Gitai è un regista con un potente senso della messinscena, del cinema e dei suoi movimenti, ma come sempre nei suoi lavori, questa scelta non è una semplice dichiarazione di estetica, e meno che mai l'espressione di un autocompiacimento. Non si guarda filmare Gitai né produce universi autoritari che impongono a noi spettatori una visione del mondo, o la sua ideologia. Il suo cinema ha anticipato di decenni la «confusione» tra finzione e documentario, saggio e poesia, rito e vita. E la sua forza politica è proprio nella libertà radicale che oppone agli schematismi in ogni scelta di regia, nel modo con cui interroga costantemente l'immaginario. Lo spazio comune di un'utopia, anche se è forse una piccola realtà, di vita insieme nel rispetto delle differenze passa dunque nel flusso ininterrotto della macchina da presa. Un respiro unico, che unisce i frammenti di un mondo separato senza soffocarne uno a scapito dell'altro, ma lasciando a ciascuno il tempo necessario a divenirne parte. La Storia, e la guerra quotidiana sono tracce disseminate, accenni a qualcosa che appena oltre la soglia preme, ed è gigantesco, divorante come lo skyline che ci rivela l'ultima inquadratura. I grattacieli di un'occupazione che ha destinato un popolo a sparire, condannando così anche l'altro. Nel suo piano sequenza Gitai lascia alla parola la forza «transculturale» che l'immagine non illustra né asseconda. Ascoltiamo i suoi personaggi parlare, voci di un altrove, di una dissonante resistenza da inventare.

  Cristina Piccino - Il Manifesto

      


promo

Una giovane giornalista israeliana, Yael (la splendida Yuval Scharf), raggiunge una bidonville di Jaffa, alla periferia di Tel Aviv, per realizzare un reportage sulla famiglia di una donna: morta da poco, era sopravvissuta all'Olocausto e poi si era convertita all'Islam per sposare il palestinese Yussuf. Si chiamava Hanna Klibanov, ma per tutti era divenuta Ana Arabia, ovvero "io, l'araba”…  In un unico piano sequenza di 81 minuti (esemplare!) tra i vicoli degradati, tra la povertà, vissuta in comune, di arabi ed ebrei, Gitai dipana, con emozione e pudore, un avvincente movimento di macchina che abbraccia quella piccola comunità: una memorabile metafora sulla necessità di uno sguardo senza “stacchi” che unisca, in una struggente dinamica di aneddoti e ricordi, il passato e il presente del popolo israeliano-palestinese.

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