Viene
da Israele il "gioiellino" di questo Festival di Venezia. Siamo a
Gerusalemme; al limite di un immenso cimitero che al giorno d'oggi
occupa il famoso Monte degli Ulivi, in una modesta casa che quasi si
confonde con i monumenti funebri, vive una famiglia: il padre tra
Talmud e Torah passa tutto il tempo alla sinagoga e anche quando è
in casa è sempre occupato tra studio e preghiere; la moglie Zvinia è
completamente immersa nella routine domestica, accudisce e manda a
scuola i tre bambini, prepara i pasti, attende il ritorno del marito
e dei figli. Grassottella, evidentemente frustrata e trascurata
anche, e soprattutto, sessualmente, ha come unica diversione durante
le vuote giornate, brevi passeggiate nel cimitero, due chiacchiere
col custode arabo; come unico "peccato" la sigaretta avidamente
fumata. Ma una sera, spintasi un po' più in là sul limite del
camposanto, vede una coppia fare l'amore su una pietra tombale. È
uno shock. Dapprima scandalizzata, poi incuriosita e forse
addirittura eccitata dalla visione, moltiplica le sue uscite.
Scoprirà così
l'esistenza ai margini e agli antipodi del suo mondo, di un universo
parallelo, una corte dei miracoli di prostitute, lenoni, senzatetto,
da cui si sente irresistibilmente attratta, tant'è che invece di
denunciare la cosa arriverà a tenere coi membri di questo submondo
una specie di relazione fatta di domande, curiosità, piccole
confessioni. Verrà accettata come amica, comincerà a fare piccoli
favori, portare cibo e altro. A casa tutto come prima, marito
assente, figli capricciosi, preghiere e frustrazione, una noia
mortale. Anche i topi in cucina…
Letteralmente presa in mezzo tra questi due mondi, Zvinia sarà
costretta a scegliere tra la trasgressione che la affascina e la
normalità a cui si sente da sempre legata. E lo farà con un gesto
irrevocabile, preparando due pentole di un minestrone, una della
quali "speziata" col topicida. A chi è destinata? Un picco di regia
che riscatta un andamento lento, ma pur sempre evocativo (anche
visivamente) di un mondo dove la religione permea così a fondo la
vita di tutti. Un film strappa letteralmente l'applauso: uno
dei finali aperti più incredibili e "tormentati" mai visti al
cinema!
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Se
Mountain è un geniale, etereo
apologo sull'oltranzismo religioso, con
Rabin The Last Day
Amos Gitai
ci fa entrare nella Storia con la S maiuscola. La sera del 4
Novembre 1995 Yitzhak Rabin, primo ministro di Israele, viene ucciso
al termine di un comizio a Tel Aviv da un giovane di 25 anni, Yigal
Amir, fanatico militante di estrema destra. La colpa di Rabin (che
gli era valsa il Premio Nobel per la pace nel novembre precedente!)
è aver firmato gli accordi di Oslo, dove per la prima volta la
Palestina e Israele si riconoscevano reciprocamente come legittimi
interlocutori. È il punto di non ritorno della tragica vicenda
palestinese.
Dice Shimon Peres
nell'intervista che apre il film: "se non fosse accaduto,
probabilmente oggi avremmo la pace". Si precipita invece nel
baratro: verranno le intifade, la nascita di Hamas, i bombardamenti,
i muri, fino alle tragiche vicende di questi ultimi giorni. La tesi
di Gitai è semplice e condivisibile: non si è trattato di un gesto
isolato, ma della logica conclusione di una campagna di linciaggio
morale che, condotta dalla destra del Likud (partito dell'attuale
primo ministro Netanyahu), dall'estremismo religioso e dai coloni
degli insediamenti, ha letteralmente armato la mano dell'assassino.
Con grande equilibrio tra spezzoni documentari e ricostruzione
filmica (a volte difficilmente distinguibili gli uni dall'altra),
Gitai ci mostra con lunghi piani sequenza (sua specialità, vedasi
l'exploit di
Ana Arabia) la campagna d'odio contro Rabin,
raffigurato come nazista in uniforme, traditore della patria o
addirittura, secondo un'eminente psichiatra, psicopatico e
schizofrenico. Ci sono le riunioni dei capi religiosi oltranzisti
che asseriscono, basandosi sul Talmud, il diritto-dovere per ogni
buon ebreo di ucciderlo. E fa davvero accapponare la pelle la
somiglianza tra la visione di questi estremisti e tutto
l'armamentario di Fatwe e Jihad varie messe in campo dalla
controparte araba: sarà che i due nemici non sono poi così diversi?
Il film nella
seconda parte diventa poi un "court-movie", ricostruendo i lavori
della commissione Shangar, prontamente istituita, la quale si
preoccupa solo degli aspetti tecnici dell'assassinio (falle nella
sicurezza, responsabilità dei vari addetti) senza indagare come
avrebbe dovuto sui mandanti morali, ma l'angoscia di un destino di
due popoli falsato (sembra) irrimediabilmente da quel tragico giorno
resta, pregnante.
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