Ci
sono clichè che sembrano inamovibili. L’iconografia cinematografica
della mafia russa ce la presenta come truce e sguaiata (l’ultimo
riferimento è La 25a ora
di Spike Lee), difficile pensarla invece come cornice di una
riflessione sull’amarezza del destino, sul disperato istinto di
sopravvivenza di ogni individuo, sulla complicità redentrice che lega
oppressi desiderosi di vendetta e una legalità messa alle corde, sulla
forza rasserenante di una piccola nuova vita.
E nel tessere la trama di tante istanze
David Cronenberg riesce ancora
una volta ad essere se stesso e ad imporre il proprio universo
d’autore fatto di cupi segnali di disfacimento morale, di violenza
estrema, essenziale ed esemplare. Una gola squarciata, una giovane
partoriente che inonda di sangue il pavimento, un neonato avviluppato
nei residui del liquido amniotico, nel sangue del parto, nei tubi
dell’incubatrice… Vite spezzate, morti premature, esseri umani che si
aggrappano alla vita con disperata naturalezza. Quel bambino fa da
fulcro per la storia di
La promessa dell’assassino: Anna (Naomi Watts),
l’ostetrica che lo accudisce, se ne fa carico (ha sulle spalle una
gravidanza, e una relazione, non andati a buon fine) e cerca di
tradurre il diario (in russo) della giovane Cristina morta durante il
parto. Anche Anna ha origini russe, ma lo zio a cui affida la
traduzione la mette in guardia sul pericolo di addentrarsi nei fatti
privati di persone e mondi che non conosce. Troppo tardi. Anna è
andata a cercare informazioni presso il ristorante dove Cristina
lavorava, ha conosciuto Semyon (Armin Müller-Stahl), il padrone del
locale, gli ha inopinatamente rivelato l’esistenza di quel diario.
Entrando in quel ristorante Anna ha varcato la soglia di un mondo
infido e crudele: Semyon (mandante di efferati delitti, cinico
stupratore di minorenni) è il boss del clan malavitoso Vory v zakone
(letteralmente: ladri nella legge), accanto a lui si muove il figlio
Kirill (Vincent Cassel), depravato e insicuro e Nikolaj (Viggo
Mortensen) autista e “becchino” che esercita su Kirill, su Anna (e
sullo spettatore) un fascino ambiguo e misterioso. Troppi i segreti
che si celano dietro la sua maschera statuaria e laconica, ma, ci
racconta Cronenberg, “nelle prigioni russe la tua vita è scritta sul
tuo corpo” e i tatuaggi che ricoprono quello di Nikolaj narrano delle
lotte e degli intrighi di cui è figlio, e le stelle, che con
l’affiliazione alla mafia gli vengono impresse sulle ginocchia e sulle
spalle, diventano il passpartout per un’iniziazione di fratellanza e
tradimento. Il suo corpo tatuato e nudo sarà il protagonista assoluto
di un’agghiacciante lotta all’ultimo sangue in un bagno turco: una
brutalità “messa a nudo” senza risparmio di colpi, un accavallarsi di
corpi lacerati e sanguinati, una violenza animalesca che non dà
tregua, una sequenza di cinema angosciante e memorabile.
Ma il fascino, più straziante che perverso, di
La promessa
dell’assassino non scaturisce solo dalla “documentazione”
dell’abbrutimento che contraddistingue quel mondo sotterraneo che
popola la “civile” Londra d’oggi (le esibite scene di sesso e
violenza, l’avrete capito, lo consigliano solo a stomaci forti), ma
dai sommessi momenti di “buio” che avvolgono i personaggi,
l’evolversi del racconto stesso, la spiazzante identificazione dello
spettatore. Con una mirabile scelta stilistica Cronenberg riesce a far
si che il vero protagonista di questo suo noir sia la voce fuori campo
e, ormai “fuori storia”, della povera Cristina. Nelle parole che
escono dal suo diario, il tragico racconto della sopraffazioni subite
sembra alla fine perdere la sua battaglia (narrativa) rispetto
all’invitta forza dei sogni e delle speranze che hanno dato fiducia al
suo esistere. Al quel suo commovente “sono venuta a Londra per trovare
una vita migliore” fanno eco, in contrappunto, l’immagine rasserenante
di Anna, che fuggita dal caos della metropoli trova nell’essere madre
(adottiva) il giusto senso per la sua vita, e quella cupa e solitaria
di Nikolaj, preso inesorabilmente dal suo ruolo (moralizzatore, ma non
per questo meno asfittico) di nuovo padrino della mafia russa
londinese. Come in A History of Violence Viggo Mortensen, non-eroe di
Cronenberg
, è un vincente dal sorriso spento, prigioniero di una
realtà, lì familiare qui criminale, segnata da un futuro di profonda,
amara incertezza.
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