La 25a ora
(25th hour) |
Guardarsi
allo specchio e leggersi dentro. Un’esperienza metaforica che prende
esuberante concretezza per Monty Brogan - Edward
Norton,
spacciatore dalla scorza dura, ma dal destino segnato, almeno per
sette anni. La narcotici gli ha trovato nel divano di casa un quantitativo
di merce tale da incriminarlo e da spedirlo al fresco. È l’ultima
notte di libertà e nel cuore di Monty c’è il dolore per una soffiata
traditrice, nella mente si affollano pensieri amari per una vita agiata
(satura di cinismo) inesorabilmente da archiviare, per un soggiorno
dietro le sbarre che, oltre a togliergli la libertà, lo metterà domani
in balia di violenza e soprusi e lo costringe oggi a rileggere, senza
pietà e alibi, la propria esistenza. Un passato da svalutare, un futuro
plumbeo, un presente fugace che lascia lo spazio di una notte per
un faccia a faccia risolutivo.
E,
come sempre con i veri autori, le idee si fanno immagini, con una forza figurativa
memorabile (e un’ipertesa tessitura
musicale: Terrence Blanchard!): il Monty che si agita nella cornice dello specchio
- i panorami simbolici “supplenti” dove sorgevano le Torri - i frammenti di sequenza
che si ripetono per dare inconsueti ritmi ed enfasi ai momenti
topici del racconto - Monty sulla panchina in riva all'Hudson, immobile con lo
sguardo nel vuoto a godersi il suo ultimo “giorno d’aria” - il confronto,
carico di tensione, con la gang russa - la presenza disturbante di Monty alla
lezione di Jacob - l’estraniante incursione della polizia che inchioda con melliflua
caparbietà l’”angelico” spacciatore - la figura di
Naturelle (Rosario Dawson) appassionata, sensuale e già estromessa, dalle circostanze,
dalla vita del suo uomo - l’atmosfera surreale del night dove anche l'amicizia
sembra più perdersi che ritrovarsi - lo scontro improvviso e
veemente che coinvolge Monty, Frank e… angolature e tagli di ripresa - l’impossibile
favola salvifica (sopra le righe e sovraesposta) che riempie i pensieri di Monty
mentre il padre lo accompagna alla prigione... |
ezio
leoni - MC
magazine 6
giugno
2003
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| altre testate: |
da La Repubblica (Roberto Nepoti) |
da Il Corriere della Sera (Tullio Kezich) |
La 25a ora è uno dei film migliori della stagione: una storia ambientata nel milieu del crimine, ma soprattutto un atto d'amore per New York resa da un cineasta newyorkese per eccellenza come Spike Lee. Il soggetto, tratto dal romanzo di David Benioff, riguarda l'ultima giornata di libertà di Monty Brogan, spacciatore condannato a sette anni di detenzione. Monty la trascorre con la sua ragazza e con gli amici d'infanzia, un insegnante e un agente di Borsa, ciascuno tormentato da qualche senso di colpa nei confronti del protagonista. Tra l'Upper East Side e l'East River, tra un incontro col padre e un regolamento di conti con la mafia russa, si parla molto, si riflette sull'amore, sull'amicizia e sulla precarietà di entrambi, sulla responsabilità e sul tradimento, sul passato e sul futuro. Però il film non tirerebbe fuori tanta forza dolente, se non fosse ambientato nella New York del dopo-11 settembre. Spike la osserva con uno sguardo inquieto (c'è una scena di "melting pot" che ne rivela l'isteria collettiva), ma anche pieno di fedeltà e compianto; come dimostrano l'inquadratura iniziale, con i raggi di luce al posto delle due torri, e quelle - dall'alto - sull'immensa ferita di Ground Zero. Il suo è il primo film visto veramente dall'interno della città sotto choc. | Tra il romanzo La 25ª ora di David Benioff e il film di Spike Lee c'è una differenza non da poco: il libro è stato scritto prima dell'11 settembre e il film è stato realizzato dopo la data fatidica. Vale a dire che l'angoscia personale del protagonista, spacciatore che vive la sua ultima giornata di libertà prima di entrare in carcere per sette anni, è immersa nell'ansia collettiva di una New York frastornata e tragica, che contempla le voragini delle Twin Towers. La domanda su quale potrà essere il futuro di Edward Norton, vulnerato protagonista, si allarga al problema dell'avvenire di un'intera comunità. In galera l'antieroe del film teme di dover subire gli abusi sessuali di cui si racconta, ma alla sua situazione non esiste alternativa se non nell'immaginazione. In apparenza con i nervi sotto controllo, il giovane ribolle di concreti furori; e quando si trova davanti allo specchio di un lavabo, in un ristorante, esplode in una serie di insulti a tutto e tutti, incluso se stesso. Qualcuno ha notato che questa scena, tipica di Spike Lee, c'era già nel romanzo: negli Usa letteratura e cinema si influenzino a vicenda. Pregi e difetti sono i soliti dell'autore, tanto che è ormai difficile disgiungerli: felicità nel cogliere la cosa vista e logorrea, folgorazione grottesca e divagazione superflua. Il risultato, stavolta, sembra testimoniare una raggiunta maturità. Anche perché Spike si è staccato dalla tematica razziale, ha capito che neri o bianchi siamo ormai tutti sulla stessa barca. |
da Il Manifesto (Mariuccia Ciotta) | |
Poema sinfonico su New York con lo sky-line ridisegnato da due fasci di luce blu e di blue music (Terrence Blanchard) come unica forma di vita, La 25a ora di Spike Lee, Orso d'oro virtuale alla Biennale 2003, arriva sugli schermi pasquali, film imprendibile del day-after. La città sull'Hudson è pietrificata, nebbiosa, bellissima nella fotografia che passa dalle impurità digitali a un lussuoso 35mm cinemascope. I ponti di Manhattan e la passeggiata lungo il fiume con le sue panchine fantasma dove Monty Brogan (Edward Norton) fissa ipnotico le sue ultime ore di libertà. Sette anni di carcere per spaccio di stupefacenti. Il trafficante di droga per Spike Lee è un newyorkese tipico, Monty, l'uomo della «tragedia americana» (Un posto al sole con Montgomery Clift). Nome e destino. Disincanto, abito nero, intellettuale, casa al Village, quello di Woody Allen con i mattoni rossi, le scalette di pietre e le ringhiere. Il regista dirige e produce con la sua "40 Acres and a Mule Filmworks" l'opera tratta dal romanzo di David Benioff (sceneggiatore) scritta prima dell'11 settembre. Colpiti già gli spacciatori neri in molti suoi film, Spike fotografa il newyorkese senza colore di fronte alla città macina soldi, piaceri, velocità. Come il naufrago notturno sull'ambulanza di Martin Scorsese (maestro di Spike Lee all'università di N.Y.), Monty nelle sue ultime 24 ore da cittadino libero vede apparire gli spettri del futuro e immagina che fine faranno gli amici, la sua donna, i mafiosi russi, e tutto il popolo di Manhattan. Il trafficante di droga - smercio easy per l'iperconsumo locale - diventa supervisore, coscienza sporca e sublime, martire e simbolo di New York. Tanto da permettersi una performance oltraggiosa degna dell'esordio She's Gotta Have it. Monty riflesso nello specchio della toilette di un locale si sdoppia e recita a velocità rap un fuck you per ogni tipologia etnica. E per i brockers di Wall Street, ridicoli, pedanti, incravattati come il suo amico Frank (Barry Pepper) che pretende di fargli la morale, e anzi lo dà per spacciato, perché lui è più furbo, frega la gente on line. Mentre il grande Philip Seymour Hoffman (Happiness, Magnolia) interpreta il goffo professore Jacob, insidiato dalla studentessa diciassettenne, Mary (Anna Paquin, Lezioni di piano). Il film ha un prologo che è quasi un cortometraggio, e rimanda per densità e atmosfera al Falò della vanità di Brian De Palma. In scena lo scontro tra due diversi metodi di fare soldi a New York, da Wall Street ai pani di cocaina nascosti nel soffice divano del Village. Dove Monty affonda beato con la portoricana Naturelle (Rosario Dawson), bellezza da confezione regalo, fatta per l'abito d'argento che solo lo spaccio consente. In un fluire nottambulo, La 25a ora ammalia e rilancia Spike Lee in un cinema dalle grandi ambizioni artistico-produttive, dopo i documentari (The original king of comedy, 2000), i film-tv (A Huey P. Newton Story, 2001) e l'episodio anti-Bush nel collettivo Ten minute older (2002). La trama di azzurro elettrico permane allo scadere della notte, e in una sequenza incantata il Ground Zero emerge dall'alto della finestra del brocker, appartamento nella City, vista sulle Torri. Le ruspe scavano sotto la luce dei riflettori e della luna, e continuano quando lo sguardo umano non le inquadra più. La città delle Twin Towers saluta l'uomo che pensava a una vita facile e gli augura un buon ritorno, con il sorriso dei coreani, indiani, africani, russi, ebrei, arabi, gialli, bianchi, neri. Newyorkesi. | |
da L'Unità (Dario Zonta) | |
Ci sono film che da soli danno senso a un'intera stagione cinematografica. Arrivano al momento giusto e ci parlano del momento ingiusto: quello che il presente consegna alla Storia. Lo fanno con grande fede nelle capacità del cinema di raccontare il mondo attraverso l'arte, e di mettere l'Arte contro il Mondo quando questi si trasforma nel fantasma della sua storta Storia. La 25a ora di Spike Lee si assume questo compito. Completamente snobbato con svista incredibile all'ultimo Festival di Berlino, è un film bello (sì usiamo questo aggettivo semplice ma chiaro) e importante, che esce nelle sale, e non a caso, il Venerdì Santo. Infatti per molti versi l'avventura dello spacciatore Monty può essere letta come una sorta di passione laica, avventura cristologica di un comune delinquente condannato all'inferno. La 25a ora parla di delitto e redenzione, di senso di colpa e responsabilità etica, dell'amicizia e dell'amore in un mondo, il nostro presente, dove il senso normale delle cose non trova più dimora, dove tutto è possibile e tutto è giustificabile, dalla piccola colpa comune, fatta di ambizione e noncuranza, al grande delitto della politica e della storia, fatto di interessi e corruzione. Quest'uomo, Monty (che come un Cristo, ma colpevole, si assume il peso della coscienza e metaforicamente quello della collettività) vive le ultime 24 ore di libertà in una New York post 11 settembre (e questo è il primo film a ritrarla nel suo stato di «sopravvissuta») perché è stato sorpreso in casa sua con un quantitativo minimo di droga ma, per le durissime Rockfeller Laws, sufficiente a una condanna di lunga detenzione. È un uomo semplice, un americano tranquillo, che ha scelto lo spaccio come lavoro redditizio. Ha una moglie portoricana bellissima e due fedeli compagni di scuola come amici. Ma ora deve andare dentro, fare un salto all'inferno nella speranza di uscirne sufficientemente vivo per dire di essere sopravvissuto, come la sua città. In questa salita al Golgota, descritta da Spike Lee con una regia essenziale e una fotografia perfetta, ci sono tre passaggi-stazioni fondamentali che, legati insieme, cuciono il senso della storia. Il primo è un monologo che si trasforma in una preghiera laica, un'invettiva-sfogo: il protagonista Monty (Edward Norton) si chiude in un bagno, ha capito che il tempo lo stringe al suo destino di carcerato e prende coscienza progressiva della sua condanna. Vede sullo specchio scritto a pennarello un «Fuck you» e inizia una ballata, intona una cantata sulla New York di oggi, i suoi abitanti, i suoi quartieri, le molte etnie e classi sociali, i personaggi noti e gli anonimi. La fotografia di una città-mondo che sperimenta ogni giorno il caos del multiculturalismo, che cerca di tenere insieme l'alto e il basso, il povero e il ricco, l'immigrato e il nativo in uno stesso affioramento sociale e politico. Manda a quel paese tutti, compreso se stesso. È una scena di grande impatto, la preghiera laica di un condannato all'inferno. Il secondo passaggio è di nuovo impressionante. I due amici di Monty, un timido professore universitario e un broker arrogante, discutono della triste sorte del loro compagno. Lo fanno bevendo un whisky davanti a una finestra che dà proprio su Ground Zero. Parlano di come prima o poi tutti i nodi vengano al pettine, della responsabilità delle proprie azioni e scelte, che spacciare piccole dosi di droga vuol dire avvelenare le persone, mentre al di là della finestra sembrano non accorgersi, che illuminate da luci gelide, le gru come enormi avvoltoi meccanici, spolpano quello che è rimasto dell'apocalisse newyorkese, la condanna macroscopica allo «spaccio» della politica internazionale americana. Il terzo momento racchiude i precedenti e dà il senso alla storia. È giunta l'ora e il padre porta il figlio Monty verso la prigione, su di una jeep che vede sventolare sull'asticella dell'antenna una piccola bandiera americana. Durante il tragitto il padre gli prospetta una possibile venticinquesima ora, quella della fuga verso il Messico, verso una redenzione che non sconta la colpa. Gli racconta una vita diversa, nuova: una famiglia, dei figli, una casa, un lavoro, invecchiare con i nipoti e morire serenamente. Insomma la vita come dovrebbe essere. Ma la 25a ora è l'ora che non c'è. Non esiste né per Monty né per l'America. Questa è l'ora, dice Spike Lee in questo film, della responsabilità etica, dell'assunzione di colpa. Le due colonne di luce che si ergono al posto delle torri gemelle sono i fari abbaglianti a cui l'occhio del presente non può sfuggire e l'America pure, benché sembri farlo così bendata dalla sua stessa cecità. | |
da Musica (Enrico Sisti) | |
Anche le gangs di Scorsese farebbero silenzio nella New York di Spike Lee. Il macellaio smetterebbe di tagliare filetti, le ladre smetterebbero di arraffare dollari, i preti e ipoliticanti si ritroverebbero senza ideali e nessuno andrebbe ad ascoltarli in piazza prima dell'ultima battaglia. Il rintocco della 25a ora fa scattare il clic a NNYC: New New York City. Una città nuova per l'ennesima volta. E non sono le torri ad aver creato il problema. Nella 25a ora di Spike Lee non è solo la città dell'11 settembre a stare zitta. Semmai le torri, sparendo nel nulla, hanno spalancato una ferita ingranditasi lentamente, con gli anni, come l'immondizia di un locale alla moda. Tutto bene finché arriva gente, finché tira e si tira. Ma sotto? E la puzza fuori? NNYC non è NYC. Il drug-dealer Monty Brogan è stato beccato e aspetta di pagare. Ma a pagare con lui sono tutti i sogni di un boom durato un secolo: il secolo dell'energia sociale, della bohème del Village così bene raccontata da Christine Stansell in Bohemian New York and the creation of a new century, dei vagabondaggi intellettuali, delle faide razziali, della diversità e della molteplicità. Anche Central Park è piegato in due. Le mosche hanno paura di volare, gli uomini non lo fanno da tempo. Non c'è una sola via che parli, non ci sono frenate di taxi ne clangore di metropolitana. Nemmeno i “41 colpi" contro Amadou Diallo, che preparano il pubblico alla chiusura springsteeniana (The fuse), fanno rumore. La "jungle fever" ha mietuto la sua vittima più illustre: la giungla stessa. Non è più la città della Stansell, di Allen, di Warhol, dei rapper e di Broadway, dei broker e dei mendicanti. Giuliani potrebbe essere un sindaco dell'Ottocento. Neppure sembra Manhattan ciò che si stende fra l'Hudson e l'East River: piuttosto una chiesa. E sotto la chiesa sono visibili i resti di un vecchio perimetro, le mura scrostate di un'epoca già lontanissima. Ma il silenzio di NNYC e i sette anni di galera che dovrà scontare Brogan sono forse l'inizio di una vita nova. Occorre fare il vuoto prima di ricominciare a riempire. E allora, avrà pensato Spike Lee, lasciamo che a parlare sia la musica, il mix ideale di tutti noi. E la musica della 25a ora è un requiem martellante, mediorientale, jarettiano, onnipresente. Sa di espiazione. Lo ha firmato Terence Blanchard ma è come se l'avessero scritto tutti i new-newyorkesi che Spike Lee ha fatto diventare muti. C'è vita solo in una discoteca. Ma fuori la giungla tace. |
promo |
Monty Brogan sta vivendo la sua ultima giornata da uomo libero, tra solo 24 ore verrà rinchiuso in una prigione per sette anni. 24 ore per riflettere su ciò che si è fatto, sulle occasioni mancate e per salutare le persone care. Spike Lee, coadiuvato da un bravissimo Edward Norton, realizza un film bellissimo, molto intenso in cui per la prima volta si vede New York dopo l'11 settembre. |
LUX - aprile 2003