da Film Tv (Emanuela Martini) |
Ci sono casi e coincidenze e intersezioni che regolano e intrecciano le nostre vite. Nel 1958, un ragazzo si getta dall'ultimo piano di un grattacielo e, durante il volo, incrocia la fucilata che sua madre sta sparando a suo padre nell'appartamento due piani più sotto. È uno degli episodi che aprono, come una cornice ripresa da cinegiornali d'epoca, il labirinto in cui si articola la struttura narrativa di Magnolia: ventiquattrore, da parzialmente nuvoloso alle nuvole fitte alla pioggia alla schiarita, nella vita di una ventina di personaggi, a Los Angeles, oggi. Intorno a due patriarchi peccatori, arrivati al rendiconto di una malattia terminale, si dipana la narrazione più ambiziosa e dissennata degli ultimi anni: ambiziosa perché non si concentra, come Boogie Nights, su una rappresentazione lineare, ma mescola l'attimo, il qui e ora, di ognuno, tentando di estrarne il "cuore", il nodo cruciale; dissennata perché non tiene conto delle regole, dei tempi e dei ritmi, delle abitudini e della coerenza, pur di rimandarci quest'immagine complessiva, disperatamente analitica, quotidiana eppure del tutto eccezionale, tremendamente intima eppure così condivisibile. Magnolia è un giorno nella vita di ciascuno di noi, con le sue debolezze e i suoi paradossi, le sue voragini dolorose, le sue cattiverie gratuite, le sue generosità involontarie, i suoi momenti, nel cuore della notte, di terrore rivelatore, di rimpianto per un'intera vita, per un'ingiustizia fatta o subita nel passato, per un sogno andato a male o per un'illusione che nasce. Cinema "psichico" quasi, un'immersione in un flusso ovattato, in un continuum che non dà tregua, dove uno zoom su un volto è più terribile di qualsiasi discorso, dove uno sguardo, un passaggio tra un ambiente reale e un'immagine trasmessa dal televisore, più incisivo di molti silenzi. Un film sterminato (dura più di tre ore), dove, almeno per le prime due ore, pare di stare in un unico piano sequenza: sopraffatti dalla musica di Aimée si è letteralmente trascinati in un gorgo ipnotico. Un film imperfetto, ma talmente generoso che ogni imperfezione, incongruenza, esitazione, insistenza, diventa un impagabile pregio, un tassello, un dolore, un dubbio, una speranza che vanno ad aggiungersi allo squallore disperato del mondo, del nostro mondo. Un mondo fatto di solitudini, di crudeltà, di lacrime che non si trattengono, di rane che piovono dal cielo, di gesti minimi che possono aiutarci a fare i conti con il passato, quello con il quale noi crediamo ma che spesso non ha chiuso con noi. Paul Thomas Anderson è il regista più coraggioso del decennio; la sua passione non ha prezzo. |
da La Repubblica (Irene Bignardi) |
Tutto quello che avete letto o sentito in positivo o in negativo su Magnolia - Orso d'oro a Berlino, candidato a tre Oscar, grande successo americano - è vero. Che è un film barocco, lungo, ridondante. Che fa un uso violento della musica. Che è una specie di soap opera pantografata, dilatata, portata a dimensioni bibliche. Che si parla troppo, nelle sue storie intrecciate, di cancro e di televisione. Che subisce, a un'ora dalla fine, una brusca incrinatura e per un attimo sembra non saper più dove andare. Ed è vero, anche e di più, che è girato con grandissimo mestiere, che è interpretato da una squadra di attori tutti bravissimi - basti dire che perfino Tom Cruise è davvero notevole -, che è profondamente emozionante, spesso perfino divertente, a tratti sconvolgente, perché rivela una profonda pietà umana e va a scavare senza pudore nelle paure e nelle angosce del vivere contemporaneo. Ed è vero anche che nel calcolo algebrico tra le sue moltissime qualità e i suoi molti difetti vincono le prime, e che dallo scontro tra i suoi elementi positivi e negativi esce un tessuto di idee, di sentimenti, di stati d'animo, di invenzioni come raramente si incontra nel cinema americano di questi tempi. E se Magnolia non è un film perfetto, se la complessa struttura intrecciata di questa colossale commedia umana ogni tanto fa acqua e ha bisogno di qualche gruccia e di qualche didascalia, bisogna riconoscere comunque a Paul Thomas Anderson, il trentenne regista di Boogie Nights, che lo ha scritto e diretto benissimo e lo ha intessuto di qualche confusione, il diritto a un posto tra i grandi del cinema contemporaneo. Secondo il modello altmaniano di Nashville e di America oggi, anche Magnolia - il titolo non viene dal fiore, come farebbe pensare il brutto manifesto, ma dal nome di una strada della San Fernando Valley attorno a cui si incrociano e si sfiorano i personaggi del film - è una sorta di Ronde californiana, che intreccia nove storie, colte in una qualsiasi giornata destinata a finire in una catastrofe di violenza e originalità biblica: certo molto strana (piovono rane, a migliaia, a milioni), ma non così strana rispetto al mondo crudele e assurdo su cui piovono. E non è meno strano che a due terzi del film le storie si fermino per un attimo e tutti i personaggi intonino, uno dopo l'altro, la stessa canzone: It's not going to stop, non si fermerà: e si parla della difficoltà del vivere. Magnolia è un grande melodramma in cinema, e l'uso che Anderson fa della musica - sovrapponendola ai dialoghi, ripetendola insistentemente come un basso continuo, facendola irrompere nelle conversazioni come un terzo interlocutore - può risultare affascinante o irritante in egual misura, ma non è certo mai banale o prevedibile. E anche se il registro generale del film ondeggia tra la tragedia e l'assurdo - preannunciato da un prologo esilarante e terribile che mette in campo le idee del regista circa la precisione del Caso -, anche se tocca brutalmente e senza mezzi termini il senso della nostra fragilità, Anderson ha sufficiente umanità, intelligenza e humour da non cedere mai al tono oracolare. Se non bastasse, sa come esaltare il lavoro degli attori - da Tom Cruise, che nasconde sotto la brutalità del macho una fragilità edipica, a Jason Robards, il padre che lo ha abbandonato, da Philip Seymour Hoffman, l'infermiere che accudisce quest'ultimo con straordinaria tenerezza, a Julienne Moore, che si ritaglia una scena memorabile, in cui ci possiamo riconoscere tutti, quando aggredisce verbalmente i due indifferenti farmacisti che tardano a darle le medicine necessarie al marito morente: questa è cognizione del dolore. |
CinemaEstate - LOGGIA AMULEA - PD luglio-settembre 2000