All the
Invisible Children
è un progetto che nasce con le migliori intenzioni: affrontare il
problema dei bambini ignorati, dare visibilità alla loro condizione,
mettere in primo piano situazioni su cui raramente si accendono i
riflettori, situazioni conosciute certo ma spesso accantonate dalla
mente come collaterali di drammi “più grandi”. Con l’obiettivo di
accrescere la consapevolezza del pubblico, ma anche di aiutare
direttamente i bambini in difficoltà ( gli incassi del film andranno
all’UNICEF e al PAM, Programma Alimentare Mondiale) i
produttori Chiara Tilesi, Maria Grazia Cucinotta e Stefano Veneruso
hanno coinvolto 8 registi di paesi diversi, autori celebri e giovani
emergenti, dando a ciascuno la massima libertà di interpretare il
tema.<<
L’episodio diretto da Ridley Scott e dalla figlia Jordan
(Jonathan
- 16') è l’unico ad
affrontare il tema facendo ricorso al fantastico: narra la crisi di un
fotoreporter, angosciato e impotente di fronte alle immagini di
violenza che la sua mente ha immagazzinato, che regredisce
all’infanzia e nell’incontro coi bambini si riconcilia con la vita.
Gli altri autori cercano invece di illuminare realtà che si nascondono
non lontano da loro.
Medhi Charef, algerino trapiantato in Francia,
sceglie di raccontarel’Africa dei bambini–soldato, che non sanno cosa
significhi ricevere un regalo, per i quali l’unico compagno di giochi
è il mitra (Tanza
- 16').
Anche
Emir Kusturica
in
Blue Gypsy
(17') mette l’accento sull’esistenza di situazioni
paradossali, in cui il dramma più profondo è l’impossibilità di
scegliere. Uros, un bambino bosniaco, sta per uscire dal riformatorio
ma non è felice; è pieno di sogni eppure non vuole andarsene; ha paura
di quello che lo aspetta fuori: un padre alcolizzato e violento che lo
obbliga a procurarsi da vivere rubando.
E non molto diversa è la
situazione di
Ciro, il protagonista del racconto ambientato a Napoli
(Ciro
- 13'),
diretto da Stefano Veneruso, nipote di Massimo Troisi, in cui fa una
breve apparizione Maria Grazia Cucinotta.
Sul tema della mancanza di opportunità punta anche la giovane regista
brasiliana Katia Lund (Bilu
& João
- 15') che mette in scena lo spirito d’iniziativa di
due bambini di San Paolo: alla guida di un carretto, percorrono le
strade della metropoli cercando di guadagnare qualcosa con la raccolta
di materiali riciclabili. Rimane l’interrogativo: che fine faranno la
loro energia e creatività?
Va riconosciuto a
Spike Lee
il merito di aver toccato davvero uno dei
drammi più silenziosi e ignorati del presente, una di quelle realtà
sulle cui implicazioni quasi mai si è invitati a riflettere: in
Jesus
Children of America
(20'), girato interamente nella sua Brooklyn, Leel posa
il suo sguardo su Blanca e squarcia il velo sulla condizione dei figli
sieropositivi di genitori malati di Aids.
Chiude questo quadro corale John Woo che racconta, a suo modo, la
nuova Cina dei grandi cambiamenti sociali (Song
Song & Little Cat
- 19'). In una Pechino che vede
nascere grandi ricchezze ma in cui i poveri diventano più poveri, due
bambine di opposta condizione sociale incrociano, grazie ad una
bambola, i propri destini e da questo incontro traggono la speranza
per uscire dalla propria situazione, così diversa e ugualmente
disperata.
E’ evidente, dalle storie narrate, quali sono i temi dominanti di
All the
Invisible Children e quante siano le angolazioni che si aprono alla riflessione.
Vi è però un ulteriore elemento che sembra accomunare molti
autori: il tentativo, pur cercando di scuotere il pubblico, di non
suscitare facili commozioni. Questa sorta di pudore fa sì che la
rappresentazione appaia spesso come trattenuta, quasi che l’autore
preferisca fermarsi sulla soglia di certi drammi, rinunciando a
scavarne le radici: se è evitato il rischio di risultare retorici o
didascalici, certo è che l’opera ne perde spesso in incisività.
Con delle eccezioni però. Spike Lee non esita a girare il coltello nel cuore del problema, il
nucleo familiare, dando un ritratto di inferno domestico credibile e
facendo davvero provare il senso di impotenza e di disperazione di
un’adolescente costretta a portare il peso dell’Aids di fronte a due
amati genitori drogati, egoisti e irresponsabili. Emir Kusturica, dal
canto suo, pur non rinunciando a nessuno dei suoi vezzi tematici e
stilistici e dunque giocando con le invenzioni visive e la forza
trascinante della colonna sonora, riesce a colpire nel segno nella
rappresentazione di un mondo capovolto, in cui per alcuni il vero
carcere è fuori ("Ho voluto affrontare il problema della libertà e
la percezione della libertà da angolazioni assolutamente diverse").
John Woo, nel concludere il mosaico, è l’unico a scegliere senza
pudori la strada del sentimento, riprendendo in chiave contemporanea
la favola della (bambina) ricca e della povera. Una scelta non
così sorprendente: noto come un mirabile regista "d’azione", Woo
ha caratterizzato con forte componente romantica dei suoi primi
capolavori ,
The Killer
per tutti. L’episodio si chiude con un messaggio di speranza: "Queste due bambine lottano e alla fine trovano
la forza attraverso il coraggio e la dignità".
Questo episodio finale e le parole del regista sono importanti perché
ben esplicitano la prospettiva di fondo con cui l’intero film affronta
il problema della sofferenza dei bambini nel mondo. Si tratta non
tanto dello sguardo dei bambini, quanto di uno sguardo sui bambini: è
evidente la distanza tra chi rappresenta e il mondo rappresentato e
ciò che più colpisce è l’ammirazione quasi stupita con cui questi
registi (gli adulti) guardano al mondo dei bambini,
all’energia, alla creatività, alla resistenza che esso nonostante
tutto esprime. Conclude John Woo: "Parliamo di salvare i bambini del
mondo, ma sono i bambini a salvare noi. La loro forza e il loro amore
possono cambiare il mondo".
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