La stazione
e la linea ferroviaria di
La vita è un miracolo l'ultimo film di
Emir Kusturica
non sono a caso la
principale location del film. Da lì, stazione di Golubici zona sperduta al
centro del futuro conflitto, Bosnia del `92, un ferroviere filosofo
trasferito lì da Belgrado si incarica di testimoniare una svolta epocale,
riportandoci con aplomb slavo nel pieno di un conflitto del tutto fuori
moda nei nostri media. La vecchia ferrovia come strada di collegamento,
via di fuga, meravigliosa metafora, e in particolare potente icona del
cinema dell'est, fin dal tempo di
Treni strettamente sorvegliati (film
Oscar di Menzel dove un giovane ferroviere spensierato con il pensiero
fisso delle ragazze fa succedere qualcosa di veramente significativo
quando la Storia entra sul primo binario. Film straordinario, di grande
energia come era magnifico il cinema di quell'epoca). Un altro ferroviere
(l'emblematico attore Polivka, simbolo di non conformismo) prende in mano
i destini di un intero treno in Calamita di Vera Chytilova: qui cercava di
liberare un intero convoglio dalla morsa del ghiaccio in cui era rimasto
imprigionato. Facile il riferimento, erano gli anni del congelamento
completo del paese, ai primi segnali di cambiamento. Emir Kusturica
c'entra moltissimo con tutta questa ambientazione, avendo studiato alla
Famu, la prestigiosa scuola di cinema di Praga, studente prestigioso, poi
diventato celebre, scontroso maestro, oggi quasi pacificato con un film
dal titolo tanto esuberante non fosse che l'humour nero permea tutta la
cinematografia balcanica, dalla Serbia alla Cekia. A cominciare dal vero
protagonista del film: sarà l'ingegnere-ferroviere responsabile della
piccola stazione che ha costruito con un suo microcosmo ideale in un
plastico con l'obiettivo di collegare paesi limitrofi proprio là dove sta
scoppiando la più feroce delle guerre europee? Però potrebbe anche essere
l'asino che compare fin dalle prime scene, animale antico e per lo più
scomparso nel mondo contemporaneo e che sembra essere molto più saggio e
consapevole di tante persone che si agitano senza posa tutt'intorno a lui.
Lui non si muove dalle rotaie e neanche il ferroviere: cosa vuoi che sia,
è solo un po' di guerra, dice, e incolla i pezzi degli scacchi con la
mostarda alla scacchiera così non cadono ad ogni bomba che scoppia. Un
piccolo innocuo asino aveva completamente bloccato la carriera del suo
maestro Jurai Jakubisko, censurato per vari anni per il solo fatto di
averlo dipinto di rosso. Ai ragazzi del cinema negli anni sessanta
sembrava tutto permesso, ma hanno pagato caro i loro scherzi e le loro
invettive. Film amarissimo, opera della decadenza, sarabanda dedicata a
una terra indivisibile, rende perfettamente conto del fatto che non è più
epoca di nuove onde, sembrerebbe il frutto di una grande deflagrazione di
immagini provenienti un po' da ogni paese dell'area: oltre le schegge
impazzite del cinema ceco c'è perfino traccia della commedia buffa russa
messa in scena negli spettacoli di inaugurazione, circolano personaggi
ungheresi poco raccomandabili, partite di calcio seguite minuto per minuto
e con grande partecipazione, come una guerra simulata sul campo che
anticipa quella che si svolgerà di lì a poco. L'umanità che circola per il
film crea una barriera beffarda con un certo mondo occidentale che ha
parlato talmente tanto dei problemi jugoslavi da perdere la voce, a
cominciare dai cronisti dei telegiornali, ai filosofi sparsi sui fronti,
per tutti loro c'è una frecciata. Una guerra fatta scoppiare e pilotata
per procurare grossi affari, sembra dire il film, non farà sparire le
regole fondamentali, i valori della vita, quali che siano, le amicizie che
non guardano la carta d'identità, non smembrerà un paese indivisibile
nella sua cultura. Kusturica (lo abbiamo sentito prima e dopo la guerra)
ha vissuto lo stesso disastro, mentre era lontano dal paese tutto è andato
distrutto, anche parte della sua famiglia, sulle sue amicizie non ha
potuto contare. Musica trascinante dai ritmi balcanici travolge con la sua
musica un bel po' di anni che sembrano ormai lontani, personaggi e brani
celebri, come un'epoca passata per sempre. |
Kusturica si
ripete, gira in tondo con gli eccessi, raschia il fondo del barile dei
paradossi, gli manca il fiato delle invenzioni fantastiche. Ritorna dai
compaesani, fa finta che sia la prima volta, si rimette a raccontare
storie di guerra e baldoria, bravate e bevute, amori e sogni e uomini e
animali e letti che volano. Storie che, francamente, sembrano sempre le
stesse: e ogni narratore diventa noioso quando si limita a rimescolare le
carte. Bosnia 1992, scoppia la guerra tra jugoslavi. Luka, ingegnere
ferroviario serbo, viene lasciato dalla moglie cantante e suo figlio Milos,
aspirante calciatore, finisce nell’esercito. Lui, nella casetta sulla
ferrovia, si innamora della bella musulmana Sabaha, affidata alla sua
custodia e nemica perché bosniaca. Come sempre, Kusturica ha in mente una
sua Jugoslavia sognata, in cui tutti vivevano felici e, per far festa,
sparacchiavano di qua e di là (per aria). Poi, non si capisce perché,
hanno abbassato la mira e hanno preso a spararsi addosso. Kusturica non
spiega, si trincera dietro il racconto e gli aneddoti. Qualche trovatina
c’è ancora, però lui farebbe meglio a fermarsi a riflettere. Sulla storia
e sulle sue storie.
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