Tutt'altra
riflessione critica quella che genera
A History of Violence,
accomunabile a
Memorie di una geisha
solo per alcune contraddizioni “di partenza”, legate all’origine
letteraria. Ispirato alla
«graphic novel»
di John Wagner (script) e
Vince Locke (chine), già messo in sceneggiatura da Josh Olson, il progetto è stato rielaborato da
Cronenberg
che lo ha epurato
dei clichet italo-mafiosi facendolo implodere in una vicenda familiare
ancorata all’american way of life piuttosto che alle standardizzate
atmosfere di una società criminalmente infetta.
L’angoscia profonda, classica del cinema di Cronenberg
, parte per
sottrazione: la crudeltà con cui, nell’incipit, due ignoti
assassini
“pagano il conto” prima di lasciare il motel, resta come una minaccia
sospesa poiché la narrazione procede poi in una tranquilla comunità del Midwest ove la macchina da presa mette a fuoco la serena vita familiare
di Tom Stall (Viggo Mortensen -
Il signore degli anelli) e Edie (Maria
Bello) e dei loro figli, la piccola Sarah e Jack, adolescente:
all’incertezza della sua età fanno capo le uniche occasioni di screzio (in ambito scolastico), per Tom e
Edie è solo la passione sentimentale a dare squarci di vivacità alla
normale routine. Quando i due balordi di cui sopra entrano nel bar di Tom, non si fa neppure in tempo ad allarmarsi perché la violenza esplode
improvvisa e i due rimangono uccisi dalla pronta, inaspettata reazione
dell’ordinary man. La caratterizzazione dell’eroe che subito i media
propongono stride con l’immagine pubblica e privata di Tom (“sei l’uomo
più buono che abbia conosciuto” gli sussurra la
moglie), ma altri
segnali disturbanti vengono a minare la pace della comunità e del nostro
percorso cinematografico. Loschi figuri si presentano a Tom chiamandolo
Joey, dicono di riconoscere in lui un loro vecchio compagno…
L’incertezza sale insieme alla tensione, la serenità si trasforma
progressivamente in incubo, ogni azione sembra ineluttabilmente sfociare
nella brutalità. Ciò che
A History of Violence mette in campo è
l’ambiguità del cittadino comune, il peso di un passato che nasconde
oscuri segreti, la lealtà dei rapporti interpersonali, la violenza
insita nella natura umana (sottigliezze nel significato del titolo: non
solo “una storia della violenza”, ma anche il richiamo ad una storia/un
passato legati alla violenza). Ma dal piano individuale è facile, coi
tempi che corrono, passare alle problematiche di un eroe americano
troppo idealizzato (l’atmosfera western non è poi così velata), di un
dovere/diritto di farsi giustizia da sé, di usare ogni mezzo per
difendere i propri affetti e la propria privacy.
Il punto è che Cronenberg narra tutto ciò attraverso l’efficacia di un
cinema che procede per impulsi, che sembra placarsi per poi lasciare
attoniti con subitanei sprazzi di sangue e morte, un cinema duro e quasi
sgradevole ma che invoglia a reiterare la visione per coglierne
particolari (anche ostici) che restano come flash incompiuti nella
memoria dello spettatore. Ma anche di fronte ad una sola proiezione non
si può non restare inchiodati dal senso di frustrazione per il malessere
non arginabile che trasborda dallo schermo, non si può non archiviare
nel proprio immaginario cinematografico alcuni intarsi memorabili di
opprimente tragedia e fulgido stile: come quel livido sulla schiena di
Edie dopo un’infuocata scena di sesso o come quei gesti silenziosi che
accompagnano il ritorno a casa di Tom, il suo “rasserenante” risedersi
al desco familiare.
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