Il
cinema d’essai si affaccia sugli schermi natalizi con due titoli di
evidente, contrapposta struttura. Da una parte il raffinato oleografismo
di
Memorie di una geisha,
dall’altra la cruda incisività di
A History of Violence.
Per entrambi ritroviamo una fonte letteraria.
Più famosa e “polemica” la prima: il bestseller di Arthur Golden ha
alle spalle più stesure (e dieci anni di lavoro) per arrivare alla
narrazione in prima persona che lo caratterizza, legate proprio all’esperienza
dell’autore, laurea ad Harvard e master in storia giapponese, inviato
a Tokyo per una rivista britannica, affascinato dal mondo orientale,
ma coinvolto in una disputa giudiziaria proprio da Iwasaki Mineko,
la geisha che ha trovato svilente la rielaborazione letteraria della
propria vita. Ulteriori peripezie per la trasposizione in pellicola
con
Steven Spielberg
che acquista i diritti del romanzo prima ancora della pubblicazione,
ma che, per i troppi impegni di lavoro, si relega a produttore esecutivo
e lascia alla regia al talentuoso Rob Marshall
(Chicago),
il quale osa ridefinire la sceneggiatura e lo spirito rispettoso delle
origini, porta il set negli studi californiani e, con spirito prettamente
hollywoodiano, rielabora il progetto in lingua inglese e con dive
cinesi e malesi: Zhang Ziyi (La
tigre e il dragone
e La
foresta dei pugnali volanti),
Gong Li (musa di Zang Yimou da Sorgo
rosso
a
La triade di Shangai),
Michelle Yeoh (La tigre e il dragone).
Su queste basi
Le memorie di una geisha si presenta come un’opera
d’ambienti, psicologie e situazioni, un raffinato affresco che
tratteggia a tinte via via più forti l’avventura di Chiyo sperduta
bambina dagli occhi del colore del
mare che, venduta dai genitori
assieme alla sorella, trova il suo destino inesorabilmente intrappolato
a Gion, il quartiere delle geishe di Kyoto. La sua ribellione è sterile,
vani i suoi tentativi di fuga. Ciò che all’improvviso dà senso alla sua
vita è l’incontro con un gentile signore che le offre un gelato. Da qui
la decisione di diventare una vera geisha, la “sua” geisha.Occorre rendersi edotti del significato del termine per comprendere fino
in fondo l’evoluzione del racconto e del personaggio. In una certa
ottica della cultura giapponese le geishe vanno viste essenzialmente
come “artiste” dedite a intrattenere gli uomini con canti, danze, musica
e conversazioni. La sessualità resta ai margini, ma l’ambizione è quella
di vendere al migliore offerente la propria verginità donando le proprie
grazie ad un unico protettore, per tutta la vita.
Così l’apprendistato di Chiyo è tutto rivolto a riti di eleganza
formale, dalla cerimonia del tè alla calligrafia, dai modi di versare il
sakè, all’uso del ventaglio, dalla raffinatezza nell’esprimersi al
linguaggio delle dita. Sulla strada per diventare Sayuri, la più famosa
tra le geishe di Kyoto, ci sono la ruvida fermezza della proprietaria
dell’okiya (la “casa”), gli illuminanti consigli dell’esperta Mameha
(“Una geisha è capace di fermare il cammino di un uomo solo con uno
sguardo” - ”La felicità che nella vita devi inseguire non è la tua”), la
perfidia dell’invidiosa Hatsumomo, disposta a tutto pur di contrastala.
La figura dell’uomo d’affari, a cui la fantasia sentimentale di
Chiyo-Sayuri ha ormai legato il suo cuore, resta sullo sfondo, ma è solo
alla sua benevolenza che mirano tutte le azioni dell’affascinante
geisha: tra le tante traversie della guerra (siamo negli anni trenta e
quaranta), le ritrosie di affetti che non osano svelarsi e lo strazio di
rapporti umani segnati dalla diffidenza e dal rancore, il sogno trova
alfine concretezza, ma possiamo chiamare lieto fine quello a cui è
destinata una geisha?
Prova a convincercene Rob Marshall con una formalismo figurativo di
intrigante fascino (abbacinanti la scena della performance teatrale e il
paesaggio dei multicolori giardini giapponesi), con un’impeccabile
descrizione di usi e costumi (fotografia di Dion Beebe, scenografie di
John Myhre), con la bellezza eterea e sottilmente sensuale delle sue
protagoniste, ma i riti di una geisha hanno reconditi segreti
ammaliatori, l’arte cinematografica di
Memorie di una geisha
rimane
imbrigliata in un’autodisciplina comportamentale poco comunicativa,
tende a restare un esercizio di stile asfittico, che dilata oltremodo i
tempi e non dà profonda emozione.