Tripudio
dello specifico filmico. Se c’è una categoria da tenere d’occhio quest’anno
nella serata degli
oscar è quella del montaggio. Il montaggio è anima caratterizzante
del linguaggio cinematografico, è, come diceva
Kubrick,
“la cosa più vicina all'idea di un luogo in cui fare del lavoro
creativo”. Ammortizzato l’impatto con la mirabile, sconvolgente
architettura di
Gangs of New
York è ora la volta di
Chicago e di The Hours che affascinano per un ulteriore,
personale e azzeccato intarsio di scene, inquadrature, sequenze, per
una contestualizzazione dell’idea stessa di montaggio, finalizzata
in un caso a rivitalizzare il ritmo, nell’altro a dare intensità ai
raccordi intimi del racconto.
Chicago
è una nuova, spettacolare esibizione del
musical. Se Moulin
Rouge resta una vetta a se stante
di creatività, trasgressione e citazionismo cinemusicali, il film
di Rob Marshall
(di origine teatrale, al suo esordio) riprende
gli archetipi dei
classici e li rigenera con un tocco di originalità che ne fa un’ulteriore
pietra miliare del genere. Va tenuto conto che Chicago ha alle
spalle un grande successo del palcoscenico (1975) - a firma Fred Ebb
(libretto), John Kander (musiche), Bob Fosse (coreografia e regia)
- e che sfrutta una turbolenta avventura di omicidi passionali, requisitorie
forensi, brama di
successo. Roxie (Renée Zellweger) e Velma (Catherine Zeta-Jones) sono
due assassine (la prima ha sparato all’amante sfruttatore,
la seconda ha giustiziato marito e sorella, scoperti in flagrante)
che affidano la loro salvezza all’avvocato “da prima pagina” Richard
Gere. Gli inserti di musica e balletti non sono parentesi di armoniosa
leggerezza che trasfigurano il vivere comune (come nella tradizione
di Kelly e Astaire), ma squarci onirici che mettono in scena aspettative,
sogni ed incubi delle protagoniste. Solo la sequenza finale (splendida,
coreograficamente esplosiva!) rientra nel “reale” della storia, ma
al di là della finezza linguistica Chicago è puro piacere di
visione e ascolto: canzoni accattivanti, scenografie di ballo impeccabili,
montaggio frenetico, scoppiettante di brio, nella piena coscienza
(di mutua complicità regia-pubblico) che “that’s entertainment
!”.
Il montaggio, in
The Hours,
assume una valenza molto più intimista, non tanto finalizzato ad un
cadenza ritmica frenetica, ma al compendio diegetico dell’insieme. Il
soggetto è quello del romanzo omonimo (premio Pulitzer!) di Michael
Cunningham che si espande su tre diversi piani narrativi. La musa del
racconto è Virgina Woolf, la scrittrice inglese morta suicida nel
1941. Il film si apre con il suo abbandonarsi nelle acque del fiume:
le lettere d’addio lasciate sul caminetto, i sassi del greto infilati
nelle tasche… Il plot di
The Hours prende poi di petto l’idea
base del testo (e del titolo) che è quella di analizzare il
susseguirsi (delle ore) della giornata clou di tre protagoniste, di
tre esperienze femminili legate l’un l’altra da un percorso di
sofferte sensibilità ed arcani destini.
La vita della
Woolf viene ripresa negli anni della pausa forzata a Richmond
(1913, un necessario esilio da Londra per tamponare la sua allarmante
instabilità mentale), mentre è alle prese con la stesura del
suo romanzo Mrs Dalloway: il ruolo, affidato a Nicole
Kidman, la vede declassata dalla sua fulgida bellezza, alterata
nei lineamenti per dare veridicità, anche fisica, alla cupa
nevrosi della scrittrice.
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L’habitat melò di
Lontano dal
paradiso (lì il New England,
qui Los Angeles) ritrova connotazione (1951) e protagonista (Julienne
Moore) nel racconto di Laura Brown, moglie e madre in crisi di
fronte ad una realtà che più non la convince, che più non la
soddisfa: le tappe della sua crescente disperazione vanno da
un’impasse culinaria all’angoscia per la malattia di un’amica,
dal turbamento per un bacio saffico alla lettura appassionata di
Mrs. Dalloway. |
Infine la descrizione di una New York
contemporanea, un po’ snob ed emotivamente fragile, vede
l’”impeccabile” Clarissa Vaughan–Meryl Streep (gli amici l’hanno
soprannominata “Mrs Dalloway”) abbandonarsi allo sconforto di
fronte al tragico destino del suo amico più caro (Ed Harris),
malato terminale di AIDS. |
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Stephen Daldry
, che in
Billy Elliot,
aveva abusato di scene madri di toccante empatia, lavora qui su un
accavallamento continuo di suggestioni dirompenti ma trattenute (sta
alle musiche di Philip Glass tessere l'intensità del crescendo!),
su raffinate descrizioni di psicologie e ambienti che suggeriscono
l’emozione ma che poi non la lasciano esplodere, facendo
evolvere
le tre vicende in un intreccio esistenziale teso a indagare, senza
soluzione di continuità, sulla specularità tra il reale e la fiction: Virginia Woolf che decide di non
far morire il suo personaggio, ma che “immola” se stessa – la signora
Brown che sulle pagine del libro della Woolf elabora la
propria lacerazione interiore – Clarissa Vaughn che, in sintonia con
il suo soprannome, sembra arrivare ad un punto di non ritorno e che
dovrà implicitamente confrontarsi con una storia adolescenziale di
dolore e solitudine, “ereditata” dalle altre due storie parallele.
Niente di sostanzialmente nuovo rispetto al libro di Cunningham, ma
The Hours è reso con stile cinematografico coerente e incisivo:
l’acqua del fiume che invade la stanza d’albergo in cui si è rifugiata
Laura, il crollo di nervi di Clarissa nel bel mezzo dei preparativi
per la festa, l’ispirazione letteraria di Virginia che prende consistenza
nello scorrere del pennino sulla carta bianca… E il tutto è ricomposto
sinuosamente dai raccordi della macchina da presa, che alterna analogie
e rimandi in situazioni distinte (un gesto, una frase, un vaso di
fiori), che scivola dal volto di una protagonista all’altra, che fa
di tre figure di donna un’unica sfaccettata immagine femminile in
tormentato cammino, alla ricerca di un’identità senza tempo, di una
serenità irraggiungibile, di un senso profondo da attribuire allo
scorrere delle ore.
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