Gangs of New York
Martin Scorsese - USA 2002 - 2h 45'


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    Gang e gangster hanno ovviamente la stessa radice, ma se il gangster-film ha costruito una mitologia cinematografica di aspri contrasti tra legalità e crimine sempre con un occhio di riguardo verso il sofferto ristabilirsi dell’ordine pubblico, l’affresco che Scorsese dipinge sullo schermo con Gangs of New York è di disperato, virulento pessimismo, teso quasi a depauperare la storia americana delle sue stesse origini democratiche, a trovare nel forzato amalgama di etnie e culture l’innesco atavico di una violenza insanabile, a dipingere New York come città epocale di tensioni e ingiustizie, lotte e contraddizioni, soprusi e… progresso.
Quasi tre ore di cinema-cinema incorniciate tra due efferate battaglie di sconvolgente impatto spettacolare, di straordinaria orchestrazione cine-scenografica: la prima è datata 1846 e vede lo scontro tra le bande rivali dei “Nativi” e dei “Conigli Morti” (gli immigrati cattolici irlandesi). A capo degli uni il feroce Bill (Daniel Day Lewis), soprannominato “il macellaio” non solo per il suo mestiere, ma per la brutalità con cui colpisce i nemici. E a farne le spese è subito l’agguerrito padre Vallon (Liam Neeson), trucidato di fronte agli occhi del figlio. I suoi Conigli Morti sono sconfitti e banditi dalla città.
Per arrivare al secondo cruento conflitto nello stesso fatidico crocicchio (i Five Points, l’attuale Chinatown) devono passare diciassette anni (il 1863 è l’epoca della Guerra Civile). Il piccolo Amsterdam Vallon è diventato un aitante giovanotto (Leonardo Di Caprio) che, pur se assetato di vendetta, trova protezione proprio sotto l’ala di Bill che ha ormai in pugno la città. Giochi di potere, politico e malavitoso, risse di strada, borseggi e schermaglie amorose (amabile, ma poco incisiva la figura di Jenny-Cameron Diaz) fanno crescere il racconto in una ridda di moniti civili e drammi veementi.

Pur se i personaggi restano incompiuti e le loro caratterizzazioni psicologiche troppo monolitiche e lontane, pur se il ritmo talvolta non è adeguato e la congestione iperviolenta delle situazioni scade qua e là in un ingolfato manierismo, certo è che la forza figurativa di con cui Scorsese dirige il tutto è uno scioccante compromesso tra la magnificenza populista del blockbuster e il virtuosismo registico d’autore: oltre alle epiche battaglie, vanno citate almeno altre due scene memorabili. La sequenza che accompagna le nuove truppe sulle navi mentre dalle stesse, in concomitanza, discende un macabro corteo di bare; il triplice amen che suggella tre contrapposte invocazioni prima dei tumulti finali: quello del truce Bill che si erge a difensore della sua terra, quello dell’impavido Amsterdam che vuole condurre i suoi ad una doverosa integrazione sociale, quello del ricco signore che chiede misericordia a nome di una borghesia spaurita nel dover rendere conto della propria protervia.
Tra Dickens e Shakespeare, tra Griffith e De Mille,
Gangs of New York scorre impetuoso verso la nuova battaglia, quella conclusiva. Di nuovo Nativi e Conigli Morti gli uni di fronte agli altri, di nuovo la brutalità medioevale del corpo a corpo da consumarsi tra mazze e coltelli, bastoni e asce. Ma stavolta allo scontro delle gang si sovrappone l’impeto del potere costituito (ci sono in ballo la manipolazione dei voti elettorali e la chiamata obbligatoria alle armi che scatena l’insurrezione di tutta quella New York che non ha i trecento dollari necessari per l’esonero dalla leva) e le navi dell’Unione, ormeggiate nella rada, aprono il fuoco sulla città e sugli insorti. La lotta di Bill, Amsterdam e dei lori seguaci si disperde nel fumo delle esplosioni e solo il duello tra i due protagonisti ha il tempo di compiersi. Per il resto anche le lotte tra le bande, come le bistrattate istanze della popolazione, sono immolate di fronte al sordo cinismo della ragion di stato.
Forte l’assunto conclusivo? In Gangs c’è di peggio. C’è una bieca caratterizzazione dei primi drappelli di pompieri (gli eroi dell’11 settembre) che lasciano bruciare gli edifici per squallida competitività, c’è un’ingannevole commistione di verosimiglianza e falsità storica (la coscrizione e la rivolta di New York sono episodi reali, ma non lo sono affatto le cannonate dalle navi e l’incendio del museo-circo Barnum, pur così efficaci a livello filmico), c’è un’esibizione esasperata di scenografie ridondanti e di imponenti scene di massa, di corpi maciullati e di inquadrature sfolgoranti, di sangue versato a fiumi e di raffinati movimenti di macchina. Davvero da colpire lo stomaco e togliere il fiato!
E c’è, in magistrale contrapposizione alle lapidi dei non-eroi che abbiamo visto soccombere, il crearsi sullo sfondo di una New York in continuo sviluppo, epoca dopo epoca, palazzo dopo palazzo, grattacielo dopo grattacielo. In questa preziosa digitalizzazione a cui si affida il finale dell’opera (corroborato dall’analogia musicale di The Hands That Built America degli U2), svetta, nel panorama dell’Est-side, l’immagine delle Torri gemelle: uno schiaffo ulteriore al dolore americano che cerca inopinatamente di rimuoverle da tutte le rappresentazioni cinematografiche? Una simbolica presenza per un’ellissi temporale che vuole collegare la violenza di ieri a quella di oggi?
Gangs of New York non è il capolavoro riuscito che speravamo, ma, come lo sfregio con cui Bill umilia Amsterdam, come la cicatrice sul ventre di Jenny, ancora una volta il cinema di Scorsese lascia un segno, indelebile, nel nostro immaginario cinematografico.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  9 febbraio 2003